Guillaume Pinaut è maître di Palazzo Experimental, l’hotel con affaccio sulla passeggiata delle Zattere e vista sul Canale della Giudecca – luogo d’incontro ideale per gli amanti del bello e del buono contemporaneo. Dopo aver vissuto 12 anni a Parigi, Guillaume è arrivato a Venezia appena prima del biennio che avrebbe messo fortemente in discussione il suo tessuto sociale ed economico, toccando da vicino soprattutto il mondo dell’ospitalità. In quest’intervista, ci racconta l’epifania che ha dato inizio al suo legame con la città, gli incontri e la comunità che si crea attorno ad un tavolo, e che cosa gli manca per chiamare Venezia definitivamente casa.
INTERVISTATA DA VALERIA NECCHIO
FOTO DI GUILLAUME PINAUT / RITRATTI DI VALERIA NECCHIO
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V: Mi rendo conto di non sapere molto della storia del tuo arrivo a Venezia. Com’è cominciato tutto?
G: Lavoravo già per Experimental a Parigi dal 2015. Il quarto anno, hanno iniziato con altri progetti – oltre a Parigi anche Menorca e poi Venezia. Era il momento giusto per me per cambiare, volevo trasferirmi, così ho chiesto di farmi mandare a Venezia. All’epoca Venezia era una città che non conoscevo, nel senso che non ci ero mai stato, nonostante fossi venuto più volte in Italia. Ovviamente avevo in testa tantissime immagini della città: libri, cinema…Il primo impatto è stato subito di familiarità. Sono venuto a vedere il progetto del nuovo hotel quando era ancora in cantiere, nella primavera del 2019. Appena sbarcato, mi ricordo di un pranzo alla locanda Montin, nel loro giardino bellissimo. Era marzo e la città non era ancora affollata, era davvero bello. Ho pensato subito: “Sì, qui funzionerà.” Mi sono trasferito a luglio dello stesso anno, il giorno del Redentore. E da quel primo incontro con la città in poi non ho mai avuto dubbi sul fatto che volevo rimanere, neanche dopo tutto quello che è successo nei mesi successivi, tra acqua granda e pandemia.
V: Com’è stato quel periodo?
G: Venezia chiaramente fa parte di queste città che hanno iniziato a dare per scontato e ritenere naturale il fatto che ci siano sempre tantissimi turisti – tra cui grandi gruppi e viaggi organizzati. Tutti sappiamo che la città non sarà mai in grado di gestire flussi così importanti. Ma c’è anche una fetta di persone che si spostano in coppia o in piccoli gruppi e che, soprattutto dopo la pandemia, hanno cambiato il loro modo di viaggiare (magari scegliendo l’infrasettimanale invece che il weekend, e che si fanno tre-quattro viaggi al mese) che cercano esperienze più curate e legate al tessuto locale. Questi sono quelli che, anche se è la prima volta che vengono a Venezia e magari stanno in città solo due o tre giorni, hanno il desiderio di conoscerla davvero, di sentirsi coinvolti. Questo è il tipo di viaggiatori di cui la città ha più bisogno e che dovrebbe favorire.
V: Raccontami invece del tuo background.
G: Ho studiato Scienze Politiche ed Economia a Parigi e, mentre studiavo per il master, ho iniziato a far parte di questa associazione, come spesso accade nelle università francesi, che ogni settimana ospitava produttori di vino e faceva degustazioni. Andavamo anche in gita a vedere le cantine e facevamo anche piccole competizioni di degustazione, il che ti dà la possibilità di allenarti sul vino. Però fino ad allora era una passione, non credevo di voler lavorarci, ero più interessato al mondo dell’arte. Poi, mi è capitato di fare un’esperienza in un’azienda d’asta, proprio nel reparto che vendeva i vini da collezione. E poi beh, mi piaceva mangiare, mi ero interessato al cibo e avevo iniziato a mangiare fuori più spesso. Così, in un momento in cui volevo cambiare lavoro, ho incontrato il fratello di un mio amico che conosceva i fondatori dell’Experimental – mi sono trovato a contatto con loro e ho pensato che mi sarebbe piaciuta l’idea di provare ad entrare in questo mondo, che ha il vantaggio che ti può portare lontano.
Fino ad allora non avevo mai lavorato in un ristorante. Al di là del legame con i produttori e della bellezza di un ruolo che viene chiamato a valorizzare la loro produzione, ho amato fin da subito il rapporto con i clienti. Il confronto che si crea con loro è una ricchezza costante di incontri ed esperienze. Ti metti molto in gioco e, psicologicamente, lo trovo molto stimolante. Mi piace interpretare i bisogni in ogni dato momento, capire che la stessa persona che il martedì vorrà essere coccolata, magari il mercoledì vorrà essere lasciata tranquilla. È bello quando capisci che hai capito – non è sempre facile, ma è la parte più divertente.
V: A livello di enogastronomia locale, che stimoli hai trovato, quali sono le cose che ti piacciono?
G: Potrà sembrarti un paradosso, ma per quel che è il mio sentire, la cucina veneziana non è esattamente la mia preferita all’interno del panorama culinario italiano. In generale, la cucina di mare non è la mia preferita (ride, ndr). Detto ciò, mi sono comunque appassionato molto ai coltivatori di Sant’Erasmo, dei pescatori, a questa tradizione agricola veneziana che è parte della sua identità. Penso che ci siano poche città così moderne che, al tempo stesso, hanno i ragazzi che pescano le seppie di notte come si faceva una volta. Anche questo è il bello di Venezia: che ci sono alcune cose che ti sembrano senza tempo, come queste.
V: È vera questa dimensione un po’ cristallizzata nel tempo di Venezia, così come questa vena un po’ rurale che non ha mai perso, e te ne accorgi soprattutto quando ti sposti verso le isole un po’ lontane dal centro.
G: Verissimo. E per tornare al discorso dei ristoranti, sì, da una decina d’anni ci sono una ventina di posti che sono riusciti a valorizzare questi prodotti ancora tipici, a togliere un po’ di cliché anche culinari e a reinventare la tradizione aprendosi ad altre influenze e a valorizzare tutto questo lavoro di contadini e pescatori lavorando i prodotti in maniera più moderna e più sostenibile. È un movimento lento ma che sta crescendo. Tutti i ristoranti che conosco e frequento hanno questo approccio e li vedo sempre pieni, quindi il riscontro da parte dei clienti e l’apprezzamento c’è. E il bello è che, a differenza di città come Londra e Parigi, dove aprono tre posti nuovi a settimana, fanno rumore per qualche mese e dopo nessuno ci va già più, qui non succede – i posti hanno il tempo di rodarsi e di farsi conoscere. È una ristorazione più sostenibile anche in questo senso.
V: Raccontami una tua giornata veneziana tipo, sia lavorativa che non.
Mi piace dormire fino a tardi – la mattina è un concetto che mi è abbastanza distante. Dunque la mia giornata di lavoro inizia intorno a mezzogiorno. Per il resto, non c’è una vera giornata tipo, nel senso che potrei essere in servizio come potrei essere impegnato con l’organizzazione di un evento o un incontro con un distributore di vini. A volte il servizio mi prende più tempo, soprattutto quando ci sono clienti che conosco e con cui ho il piacere di fermarmi a chiacchierare. E magari questo può sembrare per alcuni come una perdita di tempo, nel senso che non ho prodotto niente a livello economico, ma a livello umano si è creato tanto. Per fortuna siamo riusciti a creare una vera base di clienti locali che vengono spesso, o altri che sono di passaggio ma che, per passaparola, chiedono di me, e con i quali si instaura poi una bella amicizia. Diventa tutto molto più di un lavoro, si crea un legame. Ad esempio, posso dirti che un terzo dei miei amici sono ristoratori, e un altro terzo sono clienti che sono diventati amici, e poi i rimanenti sono persone che mi sono state presentate e con cui poi ci si incontra sempre.
V: Quindi è un lavoro che prende tanto, ma che dà anche molto a livello umano.
G: Sì, e posso dirti che accade soprattutto a Venezia. Qui, in proporzione, incontri molte più persone che una città come Parigi, perché lì le persone stanno un po’ nella loro zona, a seconda di dove lavorano e dove abitano. Venezia invece è piccola e la gente si sposta, e i locali si mescolano con viaggiatori e gente che lavora nell’arte — mondi che solitamente non si incrocerebbero e invece qui succede. Quello che emerge è la sensazione di essere in un paesino in cui tutti si conoscono nonostante facciano vite molto diverse.
V: Quando non lavori, invece?
G: Spesso faccio una passeggiata appena sveglio. Abito ai Frari e mi piace camminare da lì a San Giacomo, dove trovo sempre un’atmosfera di serenità e semplicità. Se no, lungo le Zattere fino a Punta della Dogana – lì vedo proprio come cambia la luce e l’andamento delle stagioni. O altrimenti verso Castello, che è una zona della città dove ancora mi perdo, anche se poi mi ritrovo sempre.
V: So che hai anche una grande passione per la lettura.
G: Ci provo! Adesso sto leggendo Berta Isla di Marías, questo scrittore spagnolo considerato il più importante degli ultimi decenni, scomparso a settembre scorso. È un romanzo scritto davvero bene – una storia di spionaggio, che a me appassiona sempre dal punto di vista psicologico. E poi mi ha fatto tornare un po’ al romanzo lungo, che ultimamente faccio fatica a leggere.
V: Tra l’altro, Marías è autore di questo libricino che si chiama Venice: An Interior che è stato uno dei primi che ho letto su Venezia. C’è un passaggio che mi ha colpito molto in cui si sostiene che Venezia ha la prospettiva dell’eterno, ovvero che è fondamentalmente sempre stata così e forse lo sarà per molto tempo. Appena sono arrivata in città, ho avuto l’impressione che fosse proprio così – che fosse la città a osservare me, piuttosto che il contrario.
G: Sì, e poi tanti dicono che la città è in pericolo, il che è vero, però è anche vero che è da 1600 anni che è in pericolo, è sopravvissuta a tutto, sopravviverà a molto altro, molto più di altre città moderne costruite dal nulla e prive di qualunque flessibilità rispetto alle problematiche a cui potrebbero andare incontro. Venezia è un paradosso e, nella sua assurdità, è tra le poche a poter aspirare a questo stato di eternità. L’unica cosa è che, se si svuota, un po’ si perde.
V: E come la vedi o te la immagini, nel prossimo futuro?
G: Sono speranzoso. Ci sono un sacco di iniziative davvero belle, come questo progetto, e tante persone che hanno cura della città, che hanno voglia di sospingerla in avanti, di creare e inventare. Vedo tante persone che hanno scelto di trasferirsi a Venezia negli ultimi anni, dopo aver vissuto in grandi città e che qui trovano un modo di vivere che gli assomiglia – persone creative che stanno creando un movimento di sottofondo che, anche se non può rappresentare tutta la città, sta comunque portando enormi benefici e soluzioni pratiche che guardano al suo futuro.
V: Questa non potrebbe essere una conclusione più perfetta per un incurabile come te! Ultimissima cosa: cosa ti manca?
G: I miei libri! Che sono la cosa più difficile da traslocare. Quando ho lasciato Parigi ho inscatolato tutti i miei libri e rimontato la mia libreria in modo identico a casa dei miei. Trasportarli a Venezia vorrebbe dire che ci rimango per bene. Sento che manca poco.