Patrice Garnier è un fisico quantistico e imprenditore attivo nel settore delle biotecnologie, ambito che difficilmente si associa a Venezia. Originario della Francia, si è trasferito nella città lagunare nel 2016 insieme alla moglie, Alberta Pane, rinomata gallerista e veneziana di nascita. Pur avendo visitato più volte Venezia in passato, è stata una sua scelta quella di stabilirvisi definitivamente, attratto dalla combinazione unica di bellezza naturale, patrimonio culturale e potenziale scientifico che la città offre. In questa intervista, Patrice racconta il suo profondo legame con la doppia identità di Venezia, sia come città che come laguna, descrive come ha adottato lo stile di vita locale e condivide la sua visione di Venezia come città del futuro.
INTERVISTA DI VALERIA NECCHIO
FOTO DI PATRICE GARNIER & ALBERTA PANE // RITRATTI DI VALERIA NECCHIO
V.N: Sei parigino, trapiantato a Venezia da qualche anno insieme a tua moglie, Alberta Pane, grande gallerista e veneziana di nascita. Raccontami dei tuoi primi incontri con la città.
P.G: Diciamo che l’ho iniziata a frequentare davvero grazie a mia moglie. Vivevamo a Parigi, ci siamo conosciuti lì. Quando abbiamo deciso di sposarci, abbiamo iniziato a venire spesso insieme, tre o quattro volte all’anno, per fare visita ai suoi genitori o per fare un po’ di vacanza. Andavamo spesso a Sant’Erasmo.
V.N: E com’era?
P.G: Fantastico. Amo l’aspetto duale di Venezia, che è città ma è anche laguna. Amo il fatto che non c’è frontiera tra la città e la natura. Nelle altre città, sai, c’è il centro, la periferia, e poi, forse, intravedi la campagna; è una distanza spesso molto grande. Qui, la natura ti arriva subito per mezzo di questa laguna che per me è parte, e non solo contorno, di Venezia. Questo incontro è stato rivelatorio. Ti fa capire quello che c’era prima che venisse costruita la città: acqua e terre emerse. Attraverso la laguna, si può prendere coscienza del progetto incredibile di Venezia. È una cosa che non smette di sorprendermi.
V.N: Quando avete deciso di trasferirvi a Venezia e chi ha guidato questa scelta?
P.G: Nel 2016. All’epoca per lavoro andavo spesso negli Stati Uniti. Farlo da Parigi o da Venezia non era poi così diverso, sia per quanto riguarda l’organizzazione della mia vita professionale che dal punto di vista personale. La cosa che forse sembrerà strana è che sono stato io a convincere Alberta a tornare a Venezia. E questo perché, in tutte le occasioni in cui ho avuto modo di visitarla, vi ho sempre intravisto qualcosa di speciale. La chiamavo e la chiamo “la città del futuro”: la trovo una città di grande ispirazione, soprattutto per una professione come la mia.
V.N: Sei una persona di scienza, il che è qualcosa di forse più inusuale, in una città che respira e dove si lavora molto nel mondo dell’arte.
P.G: Anche la scienza puù essere arte: sai, la bella scienza! Comunque sì, ho fatto un dottorato in fisica quantistica, poi però ho deciso di percorrere una strada impreditoriale nel campo delle biotecnologie. Siamo l’avanguardia delle nuove scienze ed è un campo che necessita di molti stimoli. Qui, gli stimoli non mancano. Per citare un mio collega, Venezia rappresenta “il genio dell’umanità”. Siamo sicuramente agli albori rispetto alla possibilità di poter creare un polo biotecnologico qui, ma allo stesso tempo trovo che sia completamente fattibile, e anzi, sarebbe un luogo ideale per questo. Basti pensare che a Marghera c’era la chimica verde, c’è una tradizione nel campo della tecnologia, della scienza, della chimica –– e la chimica è il solfeggio della biologia. Insomma, io penso, e lo penso ancora, che Venezia potrebbe essere una città perfetta per questo settore.
V.N: Quali sono gli impedimenti, secondo te?
P.G: Ci sono due complicazioni. Da un lato, la possibilità di una risorsa di “riciclarsi” a livello professionale e trovare un altro lavoro simile in città nel caso in cui l’esperienza lavorativa non vada a buon fine. La seconda cosa – ed è una cosa nazionale, non necessariamente legata a Venezia – è un problema legato ai finanziamenti alla ricerca nel settore, che sono onerosi e necessitano di un bilanciamento tra private equity e finanziamenti pubblici. Ad oggi, ci sono troppe forze dispersive. Ci sono pochi soldi (rispetto ad esempio agli Stati Uniti), e una dispersione a livello geografico, con piccoli poli qui e lì. Invece, servirebbe fare gruppo. Faccio sempre questo esempio, che è quello del proprietario di Sun Microsystems, una grande società di computer negli anni 70. Lui ha fondato la sua società a Grenoble perché ci sono le montagne –– e lui era un grande amante dello sci –– e perché c’era un’università con un corso di informatica all’avanguardia. E grazie a Sun Microsystems e all’indotto che si è creato, a Grenoble sono nate moltre altre iniziative tutte intorno. Venezia potrebbe fare lo stesso. Non mancano certo le eccellenze nel campo della ricerca – ad esempio Ca’ Foscari ha dei programmi molto validi.
C’è grande apertura, c’è personale molto preparato, e così pure un ottimo sistema logistico: un aeroporto che funziona bene, una stazione servitissima, un sistema sanitario più che ottimo. Aiuterebbe avere più case a disposizione, sicuramente; e aiuterebbe avere delle scuole internazionali per le famiglie che vorrebbero trasferisi. Senza nulla togliere alla scuola italiana, che rimane eccellente, certamente chi si trasferisce con figli adolescenti che non parlano la lingua farà fatica a mandarli ad un liceo italiano. Quando vai a prendere delle risorse in questo settore, soprattutto a livelli alti, guardano al pacchetto completo. Si dovrebbe fare un po’ di ricerca di mercato e capire cosa offrono i competitor, e creare un pacchetto per fare venire le persone qui. Il cuore, la bellezza, può vincere fino ad un certo punto. Serve essere competitivi sul prezzo e sui servizi (e anche più snelli sui processi burocratici), e poi il resto lo fa la magia della città. Perchè c’è da dire che lavorare e vivere qui è un piacere. Hai la laguna, hai il mare, hai la montagna a pochi chilometri. La posizione è meravigliosa. Avendo il mio ufficio qui, faccio spesso venire clienti o collaboratori; arrivano, fanno due giorni di lavoro e poi magari ci aggiungono due giorni per farsi i loro giri. Rimangono sempre estasiati.
V.N: Quindi occorre creare un sistema di servizi che possa attirare queste competenze e favorire lo sviluppo di poli di eccellenza.
P.G: Sì, perché le società si sviluppano innanzitutto attraverso il sapere e la conoscenza. E si creano dei circoli virtuosi anche al di fuori del settore specifico, ma con ricadute positive anche su tutti gli altri – incluso quello del turismo di livello, il turismo lavorativo. Ma anche quello dell’Università. La chiave è che il lavoro sia ben pagato. In tutti i settori. Altrimenti non si va da nessuna parte.
V.N: Certo. Difatti il problema della monocultura turistica è proprio il fatto che rende miopi rispetto alla possibilità di favorire altre economie che creano esternalità positive e che portano a una diversificazione che libera dalla dipendenza da una sola fonte di indotto, e che va a vantaggio per tutti.
P.G: C’è turismo e turismo. Se sei cuoco in un buon ristorante o una persona che fa servizio di livello, ti guadagni bene da vivere. Ci sono luoghi dell’ospitalità in cui puoi organizzare convengi e promuovere un sacco di altre cose, non solo dormire. Tutte le città con un minimo di ambizione devono avere le infrastrutture che diano la possibilità di congregarsi, di riunirsi, di dialogare. Il turismo di livello è un asset per Venezia. Tutto il resto, quello che mina la residenzialità, è un’altra cosa, e rimane problematico.
V.N: Come vivi la città a livello quotidiano?
P.G: Anche se venivamo spesso prima di trasferirci qui, vivere qui non è come fare un weekend una volta ogni tanto. Quando lasci il tuo paese, è come se il tuo cervello facesse una sorta di pulizia generale: le tue credenze, le tue abitudini, è tutto messo in discussione. Questo avviene ovunque, non solo a Venezia. Ma è molto importante scegliere bene, perchè questa riprogrammazione avviene anche in base al luogo di destinazione. A Venezia io posso dire di sentirmi felice ogni giorno. Non è solo una questione di bellezza, anche se ne godo moltissimo -– penso alla Fondamenta della Sensa, coi suoi scorci, o al Canal Grande, che puoi attraversare mille volte e scorgere sempre qualcosa di nuovo, diverso –– ma anche di forza, di unicità. Si cammina, e questo per me è un vantaggio, non la trovo assolutamente scomoda e anzi, è ottimo per stare in forma. La trovo molto vivibile.
V.N: So che hai un barchino, che è uno step ulteriore di venezianizzazione.
P.G: Con mia moglie Alberta abbiamo preso una galleria con porta d’acqua proprio per avere il barchino. Lei ha fatto il liceo a Venezia e ha ancora molti amici qui, sono persone che apprezzo moltissimo e che, nel tempo, sono diventati anche miei amici. Insomma, grazie ai loro consigli, ho iniziato a cercare una barca –– una Amadi di 6 metri e un motore con 40 cavalli –– e alla fine l’ho presa. E poi è iniziato il bello: appena ho visto la barca ho pensato “no, non ce la posso fare!”. Così ho preso alcune lezioni con questo signore, Giovanni, per iniziare a destreggiarmi. Ho iniziato facendo piccoli giri su canali larghi, ho avuto i miei due o tre momenti di panico, qualche brutta figura, ma poco a poco ho preso confidenza, ho cominciato a capire le tantissime regole bizantine che governano i canali, a capire anche due cose di dialetto quando faccio manovra. Come qualunque cosa, quando impari a 50 anni tendi ad andare un po’ più cauto e lento, quindi sono prudente. Non la usiamo come fosse una macchina, comunque. La prendiamo per andare a Sant’Erarmo o a Pellestrina nei fine settimana. Mi piace molto, quando guido mi dimentico di tutto, sono concentrato, svuoto un po’ la testa.
V.N: Quali sono i tuoi luoghi del cuore?
P.G: La galleria di Alberta, dove ho anche il mio ufficio. La chiesetta dei Miracoli. E poi devo dire che ci sono anche posti che amo ma che non sono da cartolina –– luoghi un po’ industriali come il tronchetto, Santa Marta, i magazzini dell’Arsenale. Anche queste cose, in fondo, rendono Venezia ciò che è –– una città che vive grazie a una logistica geniale, complicatissima.
V.N: Una Venezia produttiva, insomma.
Quando vedi questo lato della città, ti rendi conto della forza e dunque del progetto incredibile che è stato Venezia. Questi sono luoghi con grande potenzialità di sviluppo, con la possibilità di entrare nella contemporaneità, con un valore enorme per le aziende che vogliono comunicarsi qui, in questo luogo speciale. Pensa: siamo 7 miliardi nel mondo e non c’è nessun posto come questo. Non c’è paragone. Venezia è unica. La sua laguna è unica. Di lagune ce ne sono tante nel mondo, ma questa è una laguna con al centro i palazzi in marmo, ci rendiamo conto? E poi pensiamo alla sua grande vocazione aziendale e di imprenditoria intellettuale – pensiamo allo sviluppo della stampa, all’invenzione del concetto di brevetto. Quello che manca oggi è una propensione al rischio. Eppure, la storia stessa di questa città è la dimostrazione che il rischio può pagare.
P.G: Che cos’altro servirebbe, secondo te?
V.N: Un sistema di tutoraggio per trasmettere gli aspetti di una vita e di una cultura che è molto diversa rispetto a qualunque altro luogo sulla terra. In questo modo, chi viene qui –– soprattutto per viverci, ma anche in visita –– ha la possibilità di imparare le basi. Questa città ha un’identità forte, ed è qualcosa che merita di essere preservata e trasmessa. Non basta venire qui. Serve essere eredi di questa cultura, sviluppando una sensibilità corretta nei confronti di questa città.