Cosima Montavoci è un’artista contemporanea nata a Venezia. Nel 2015 si è laureata in Belle Arti alla Gerrit Rietveld Academie di Amsterdam e, fino al 2018, ha lavorato in un atelier presso l’NDSM Werf, ad Amsterdam Noord ed aperto un piccolo Atelier condiviso nel quartiere Jordaan. Nel 2018 è tornata a Venezia, dove continua la sua ricerca artistica.
Il suo lavoro si muove tra umorismo e assurdità, esplorando il confine tra senso e non-senso, tragedia e leggerezza, caos e ordine. Per Montavoci, l’umorismo e l’irrazionale giocano un ruolo fondamentale nel processo di accettazione: alleggeriscono temi complessi e invitano a dare valore ai dettagli più piccoli.
Oltre alla sua pratica artistica, ha un profondo legame con il vetro. Ha iniziato a lavorare con questo materiale a 16 anni, a Murano, ed è stato amore a prima vista. Da questa passione è nato Sunset Yogurt, un brand di gioielli contemporanei in vetro realizzati a mano. Il nome richiama quel momento in cui il vetro incandescente assume la consistenza dello yogurt e le sfumature calde del tramonto. Ogni pezzo è unico, grazie alle piccole imperfezioni che rendono ogni creazione irripetibile.
Abbiamo fatto visita alla suo Atelier, incastonato in una calle tranquilla a Murano, nel cuore della produzione vetraria veneziana, per farci raccontare della sua pratica, delle sue ispirazioni e della sua visione sul mondo del vetro artistico e del gioiello contemporaneo a Venezia.
INTERVISTA DI VALERIA NECCHIO
FOTO DI VALERIA NECCHIO
VN: Raccontami, innanzitutto, dell’inizio del tuo percorso artistico e del tuo incontro col mondo del vetro.
CM: Tutto è iniziato molto presto. Non ci sono mai stati grandi dubbi: fin da quando riuscivo a tenere una matita in mano, ho sempre disegnato. Da bambina, mia madre mi metteva sul divano e io passavo il tempo a disegnare, senza nemmeno guardare la televisione.
Già dalle medie andavo a fare bottega da un artista a Treviso, ho poi frequentato il liceo artistico, ma non ero particolarmente entusiasta della formazione offerta: si tendeva soprattutto a copiare, senza lasciare molto spazio alla creatività. Un’estate, mio padre – per farmi toccare con mano la “vita vera”, visto che quell’anno non ero andata molto bene a scuola – decise di mandarmi a lavorare il vetro. Qui a Venezia, lavorare in fornace è un po’ come lavorare in fabbrica, e l’ambiente non è esattamente definibile women friendly, in particolare 20 anni fa…eppure a me piacque tantissimo. Quando l’estate finì, mio padre mi chiese se avessi imparato la lezione. Io gli risposi di sì, e che mi era piaciuta talmente tanto che non avevo intenzione di smettere. Così decisi di iscrivermi ai corsi serali per completare gli studi, proseguendo nel frattempo il mio lavoro e la mia ricerca sul vetro.
Ho fatto un corso con Davide Penso (che oggi lavora più sulla scultura ma sempre con la tecnica a lume). Poi ho continuato da autodidatta per molti anni. In realtà, alcune tecniche, certi colori e alcuni metodi me li sono inventati da sola, sperimentando continuamente e focalizzandomi sulla tecnica del vetro a lume, dal 2020 tra l’altro iscritta nella Lista rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale Unesco.
In un ambiente storicamente maschile come quello del vetro, questa tecnica mi permette di lavorare autonomamente, senza dover dipendere da una fornace o dover mettere in piedi un team di persone. È stato proprio grazie alla tecnica a lume che mi sono innamorata ancora di più di questo mestiere ed ho saputo trovare il mio spazio.

VN: Poi però c’è stato un trasferimento all’estero.
CM: Sì, successivamente mi sono trasferita in Olanda per studiare Scienze Applicate all’Arte Contemporanea. All’università c’era una piccola sezione dedicata al vetro, ma portare con me tutti i materiali necessari da studente fuori sede era quasi impossibile, inoltre non era quello che cercavo. Per questo mi sono concentrata su altre tecniche e su una produzione artistica soprattutto legata alla scultura e all’installazione. La passione per il vetro non si è mai dissolta e una volta laureata nel 2015, ho sentito che fosse arrivato il momento di tornare al vetro. Ho sempre cercato di creare qualcosa di diverso con il vetro ma sentivo che rimaneva come materiale ornamentale ed ho deciso di creare qualcosa di davvero diverso. È stato allora che ho iniziato a sviluppare Sunset Yogurt come un vero e proprio brand, cercando di trasferire nei miei gioielli i temi su cui lavoravo anche nell’arte contemporanea.
VN: Da dove nasce il nome Sunset Yogurt?
CM: Sunset Yogurt nasce perché per me il vetro incandescente è del colore del tramonto e della consistenza dello yogurt. Quando ho cominciato a lavorare il vetro a Murano avevo 15 anni e spesso le persone mi chiedevano cosa ci facesse una ragazza giovane, anche carina, in un ambiente così difficile come il mondo del vetro. Inizialmente rispondevo spiegando il mio amore per il materiale, ma mi sono presto accorta che solo una piccola percentuale di persone ascoltava davvero. Così ho iniziato a rispondere semplicemente: Tramonti di Yogurt. Se qualcuno era realmente interessato e mi chiedeva spiegazioni, allora raccontavo del perché. Oltre 10 anni dopo nel dover trovare un nome al mio progetto, non poteva che essere Sunset Yogurt.
VN: Quali sono gli elementi che contraddistinguono il tuo modo di rapportarti con questo materiale?
CM: Il vetro è particolare, quasi capriccioso, ma proprio per questo impone delle limitazioni che aiutano a definire il proprio linguaggio artistico. Per esempio, per chi realizza murrine è fondamentale che la fantasia sia precisa e identica in ogni pezzo: è una questione di tecnica. Io, invece, se devo creare degli occhi, voglio che ogni striatura sia diversa, perché neanche i nostri occhi sono perfettamente uguali. Da questa esigenza è nata la mia ricerca di colori particolari, che mi permettono di eliminare la ripetitività che invece è essenziale per chi lavora in serie.
Io utilizzo delle canne di vetro, che in inglese vengono chiamate rods. Prendo vetro di Murano già colorato, lo modifico e lo scolpisco sotto la fiamma. A Murano, la produzione del vetro e delle colorazioni è da sempre un gran segreto: la fusione del vetro avviene di notte, e solo pochi sanno esattamente quali sono le proporzioni e alcuni materiali usati. Persino chi lavora nella fornace spesso non conosce i dettagli della composizione. Per ottenere i miei effetti particolari, parto da un colore già esistente e lo “contamino” con altri pigmenti. È un processo di sperimentazione continua.
VN: Crescere a Venezia ha influenzato il tuo percorso artistico? Ti ha ispirato o l’hai vissuto come un limite?
CM: Sicuramente crescere a Venezia significa vivere immersi nella bellezza, non solo per il vetro, ma anche per i monumenti, le chiese, l’architettura. Me ne sono resa conto ancora di più quando ho studiato in Olanda: lì tutto ha un’estetica diversa, anche, banalmente nei palazzi considerati storici. Un edificio Bauhaus, per esempio, è super minimalista, e basta un semplice poster per catturare l’attenzione…figuriamoci come ci starebbe un lampadario di Murano! Non a caso, la tradizione del vetro è spesso molto decorativa, quasi pomposa: perché, per risaltare in un ambiente così ricco di dettagli, un oggetto deve avere una sua ingombranza visiva.
Detto questo, a Venezia, il vetro è ovunque, talmente tanto che spesso non ci si fa più caso. Questo anche perché, se cammini per le strade principali, la qualità di quello che trovi nei negozi non è sempre eccelsa. Devi sapere dove cercare, scoprire le realtà giuste. Molti negozi, purtroppo, sono diventati una sorta di Grand Bazaar, pieni di oggetti dozzinali, tra souvenir di scarsa qualità e pezzi in stile muranese che, a volte, sono semplicemente brutti, oppure nemmeno vengono da Murano. Penso ai clown di vetro, agli acquari in miniatura… Insomma, cose che ti fanno pensare: “Ma davvero?” Non ha senso pensare che serva solo per fare vasi, murrine e lampadari enormi. Anche perché, diciamocelo, non tutti hanno un palazzo in cui appendere un lampadario di Murano o anche banalmente il tempo per pulirlo. Fuori dal contesto giusto, certi oggetti rischiano di risultare pacchiani. Ed è un peccato, perché il vetro ha un potenziale espressivo enorme.
Al contrario, se ti addentri nelle realtà più autentiche, di chi ha consciamente preso una strada per la propria ricerca, o anche solo visitando il Museo del Vetro di Murano, scopri che è un mondo davvero meraviglioso. Con il vetro si può fare di tutto, e ci sono tanti progetti davvero incredibili.

VN: Quindi il tuo rapporto con questo mondo non è stato sempre positivo.
CM: All’inizio lo trovavo un mondo quasi opprimente, proprio per questa sua immagine un po’ antiquata, legata a uno stile che non mi apparteneva. Proprio per questo, nel mio lavoro cerco di distaccarmi da quell’idea di vetro “da piedistallo”, quello delle collane in serie esposte su velluti impolverati con una lucetta sopra. Con questo non voglio dire che la tradizione non sia importante: se la si studia bene, si scoprono cose incredibili. Il problema, oggi, è chi non si specializza, chi segue solo le mode del momento. Se un anno va di moda il blu, allora tutti producono vetri blu. Ma così, si finisce per assecondare il mercato senza una vera ricerca artistica. Ci sono però realtà che hanno sempre seguito una loro visione, collaborando con designer e trattando il vetro come un vero materiale espressivo. È questo che fa la differenza tra un’opera e un prodotto commerciale. A Murano ci sono molti esempi, ma anche a Venezia ci sono esempi di questo approccio: in Calle del Fumo c’è un artigiano che realizza insetti in vetro, a San Giacomo c’è uno studio specializzato in pesci. Magari a livello concettuale non sono rivoluzionari, ma la tecnica è straordinaria.
Anche nel mio lavoro, il primo occhio che ho realizzato cinque anni fa era completamente diverso da quelli di oggi: meno curato, meno preciso, meno “vivo”. È la specializzazione che fa crescere la qualità. Focalizzarsi su una propria identità artistica, senza inseguire solo il mercato, secondo me è fondamentale. Nessuno può dire le stesse cose che hai dentro tu, ed è questo che rende unico un lavoro. Inoltre, penso sia importante anche per ispirare le nuove generazioni. A volte passano da me studenti universitari e mi dicono: “Grazie, mi hai fatto fare pace col vetro”. Vedere che si può uscire dai soliti schemi, anche se magari non indosserebbero mai i miei gioielli, li spinge a voler sperimentare.
VN: Durante la tua formazione ad Amsterdam, c’è qualcosa che ti ha influenzato e che si riflette nel tuo lavoro oggi?
CM: Arrivavo da una formazione molto tradizionale, ma avevo sempre il desiderio di esprimere le mie idee in modo originale. Quando sono arrivata ad Amsterdam, mi sono trovata in un contesto dove c’era una grande attenzione alla parte concettuale. Questo tipo di percorso di studi mi ha aiutato a capire il tipo di ricerca che rende un’opera d’arte tale. È lì che ho cominciato a riflettere sulla differenza tra l’artigiano e l’artista.
L’artigiano è qualcuno molto tecnico, che crea oggetti funzionali, mentre l’artista veniva visto come qualcuno che pensa, ma non si sporca nemmeno le mani. Personalmente, credo che un’artista possa essere sia colui che pensa, sia colui che fa. La tecnica manuale è essenziale per me, e a volte ciò che faccio istintivamente con le mani è più immediato e potente di un pensiero razionale. Però, una volta scelta una forma, vado sempre a studiarne le implicazioni e i riferimenti. Ad Amsterdam, ho avuto modo di confrontarmi con persone provenienti da oltre 60 nazionalità diverse e ho imparato che ogni simbolo, ogni forma, ogni colore ha significati specifici. Così, prima di finalizzare un’opera, cerco di capire tutte le possibili letture e le reazioni che potrebbe suscitare.
Ogni mia scelta ora è influenzata dalla consapevolezza di ciò che sta dietro l’opera, dal contesto in cui si inserisce e dalle possibili letture del pubblico, anche in base a dove viene esposta.
Poi, lavorando da sola, posso esplorare aspetti imprevisti del materiale, come nel caso del vetro che tende naturalmente a tondeggiare. È inutile cercare di ottenere una forma appuntita con un materiale che naturalmente si adatta al tondo.
L’esperienza ad Amsterdam mi ha anche insegnato a non accettare limiti imposti da altri. Anche se qualcuno potrebbe preferire un’opera visivamente bella, per me la forza dell’opera risiede anche nel suo significato profondo. La bellezza estetica non è l’unica misura del valore. Pensare al contesto è essenziale, sia per quanto riguarda il luogo in cui espongo l’opera che, nel caso della gioielleria, il packaging. Ad esempio, nella mia collezione Thingness, la bustina di raso rosa è stata progettata per creare una sensazione, quasi un’impressione tattile che anticipa l’emozione che provocherà il gioiello stesso.

VN: Com’è stato il ritorno a Venezia dopo tanti anni a Amsterdam? Come ha influenzato la tua pratica artistica?
CM: Il ritorno è stato una scelta felice e consapevole. L’Olanda è stata fondamentale per la mia formazione. Ho assorbito tutto ciò che potevo da quell’ambiente, ma a un certo punto ho iniziato a sentire segnali che mi spingevano altrove. C’era un progetto di gentrificazione che con Brexit in particolare, avanzava ad una velocità impressionante, oltre a varie questioni personali e di salute: mi era stato consigliato di camminare di più, prendere più sole e mangiare più pesce. Cose che a Venezia si fanno senza neanche accorgersene. Inoltre, continuavo a ricevere inviti per esporre in Italia, soprattutto nel nord-est. Dopo che l’associazione con cui collaboravo, B#Side war, ha coperto il trasporto delle mie 4 sculture ‘Tomb Sculpture’, di oltre 130 kg incluso il packaging per una mostra al Palazzo Ducale di Genova. Ho cominciato a pensare: “Ma perché devo stare qui, se il mio lavoro è così richiesto nel mio Paese?”. Certo, l’Olanda è aperta, ma è aperta a un certo tipo di discorso. Quando ci arrivi dall’Italia, ti sembra tutto più dinamico, più libero, ma alla fine ogni luogo ha i suoi pro e i suoi contro. Quindi sono tornata con una consapevolezza diversa, più matura. E sono tornata con un piano: aprire uno spazio, strutturare la mia attività, sfruttare le opportunità internazionali senza rinunciare a una base stabile.
VN: E così hai aperto il tuo spazio a Venezia. Com’è andata all’inizio?
CM: Ero entusiasta e l’accoglienza è stata incredibile. La gente aveva voglia di vedere il vetro in una chiave nuova. Avevo scelto uno spazio in via Garibaldi, con una vetrina che però ha creato qualche fraintendimento: molti lo percepivano come una bottega tradizionale, mentre per me era un atelier, uno studio d’artista. E gestirlo da sola significava non poter garantire orari d’ufficio fissi. Poi, però, è iniziata una serie di eventi che mi hanno costretta a ridimensionare un po’ tutto. Nel 2018, poco dopo il trasloco, c’è stata la prima acqua alta, che mi ha colto impreparata. Nel 2019, invece, mi sentivo pronta: avevo tutto l’occorrente per affrontarla, ma è stata più alta di quanto previsto. Ho visto l’acqua salire fino alle cosce, al buio con la luce spenta e le spine sott’acqua, nel fiume impetuoso che era diventato Via Garibaldi, il sale che impregnava i muri e li corrodeva. Però, in qualche modo, ci si rialza sempre. Durante il periodo del Lockdown c’è stata una selezione senza pietà, dove purtroppo spesso i grandi colossi hanno resistito e le piccole realtà hanno dovuto reinventarsi o chiudere. Io, ho cercato di essere elastica, ho capito che era necessario trovare un equilibrio più sostenibile.
VN: Nel frattempo, però, sono arrivati anche riconoscimenti importanti.
CM: Sì, sono stata pubblicata su testate come il New York Times e Vanity Fair, mi hanno invitata a Tex Venezia di tradizione ed innovazione per Balanching Acts, e di creare nuove collaborazioni. È stato un periodo di ripensamento, ma anche di nuove opportunità. Per esempio, ho deciso di non investire più in spazi in affitto che non mi garantivano stabilità e di comprare uno spazio a Murano dove aprire il mio Atelier e showroom ed aprirlo solo per eventi o su appuntamento. Ho vari retailers e gestisco le vendite anche dal mio e-commerce. È una soluzione molto più gestibile, perché mi permette di lavorare senza i vincoli di un negozio tradizionale e di organizzare eventi, mostre, open day, momenti più intimi con il pubblico in cui ci si beve un bicchiere e ci si mette a proprio agio—anche perché per me l’arte è legata al convivio, le persone che vengono qui non mi vedono come una commessa ed il denaro non è il centro focale dell’esperienza.
Se poi, devo partire per un evento, o una mostra, in Italia o all’estero, chiudo la porta e vado, senza dover gestire un affitto insostenibile. È un modo di lavorare che mi permette di essere presente a Venezia, ma senza rinchiudermi in un solo posto. Tutte queste sfide mi hanno portato a riconsiderare certe idee un po’ romantiche che avevo all’inizio. Sai, il sogno classico: aprire uno studio, un negozio, un atelier in pieno centro a Venezia, magari dietro la Biennale. Ma a che prezzo? È un percorso che va costruito un mattoncino alla volta, ma senza smettere di sognare in grande.
VN: Il tuo spazio ti permette di creare un rapporto più diretto con le persone?
CM: Per chi volesse un’esperienza più da negozio, ci sono comunque i punti vendita che hanno le mie cose o l’e-commerce anche se per me è importante si capisca che c’è un progetto ed un essere umano dietro anche dal computer. Creare un rapporto con le persone dipende anche da me: se sto dietro una vetrina, la gente mi vedrà come una negoziante. Se invece apro la porta del mio spazio e creo un ambiente accogliente, cambia tutto, posso spiegare il mio lavoro con calma, fuori dalla calca e quasi fuori dal tempo.
VN: Raccontami nello specifico del progetto Sunset Yogurt. Qual è la visione?
CM: L’idea alla base è dare nuova vita al vetro. Alcuni non l’hanno capito subito, ma per me è un chiaro riferimento al punk. Sai quando si diceva, Punk is not dead? Ecco, io dico Murano Glass is not dead. Alcuni l’hanno preso come provocazione perchè credevano avessi la pretesa di “risvegliarlo”, ma in realtà io voglio solo dargli una scossa, creare qualcosa di nuovo. Inoltre stavo molto pensando al fenomeno della Memorabilia. Sai quando vai a una mostra e alla fine prendi una cartolina o un dépliant? Quasi come un souvenir d’arte, che poi finisce in un libro, il dépliant viene dimenticato. Io volevo creare qualcosa che avesse un senso di permanenza diverso, che potesse essere vissuto, portato in giro e che non smettesse di vivere, qualcosa che fosse in grado di portare i concetti fuori dalle gallerie, con un tocco di umorismo, come strumento di accettazione. Trattavo pezzi di corpo in maniera scultorea all’interno delle gallerie ed ho cominciato a vedere tramite il vetro, il corpo stesso come spazio espositivo. Nonostante la funzione continui a separare il gioiello dall’arte, in questo caso non ha solo una funzione estetica, ma porta con sé il tema della mostra ovunque. Se qualcuno vede una persona con un orecchino a forma di tettina e chiede “cos’è?”, quella diventa un’occasione per raccontare una storia. E in questo modo l’opera continua a vivere.
VN: Quindi Sunset Yogurt nasce da un’esigenza artistica, in primis.
CM: Sì, tutto è iniziato dai denti. Stavo realizzando le sculture ‘Tomb Sculpture’ che sono coperte di riproduzioni delle radici di denti del giudizio ed il vetro avorio era perfetto per riprodurli. Poi ho iniziato a pensare a tutte le possibili implicazioni e di come i denti si radicano nelle nostre tradizioni, dal significato nei sogni, ai modi di dire fino alle antiche tradizioni: i primitivi che si adornavano con denti di animali per dimostrare la loro forza…
E così nasce la prima collezione, Thingness. Il nome viene da un concetto di Paul Thek, un artista americano degli anni ’70. Era cattolico e omosessuale, quindi viveva un forte conflitto interiore. Una volta visitò le catacombe dei Cappuccini a Palermo e rimase colpito dai corpi esposti, appesi come se fossero in conversazione tra loro, quali come fiori. Questa esperienza lo portò a riflettere sulla gioia di accettare la propria materialità, la definì. ‘the joy of accepting my thingness’, liberandosi dalle connotazioni religiose dell’anima e del corpo. Un concetto molto forte, che io volevo portare in una dimensione più gioiosa. Thek ha creato delle sculture incredibili, i Meat Pieces, che però trasmettono più il senso di inquietudine che quello di accettazione e gioia.
Sin dai tempi dell’università ero incappata nel testo di Freud intitolato Uncanny (in italiano tradotto come “perturbante”). Freud esplora questo fenomeno, che lui definisce Uncanny, concentrandosi in particolare sui manichini. In sostanza, parla di qualcosa che è allo stesso tempo familiare e inquietante. Quando vedi qualcosa che è apparentemente normale ma che, a un certo punto, ti fa sentire inquieto, sai che non è vivo e che non rappresenta una minaccia, eppure ti provoca una reazione. Freud suggerisce che questa reazione nasce dal fatto che, in qualche modo, ti riconosci in quello che vedi, anche se è completamente separato da te. È come se ti guardassi da fuori, ma allo stesso tempo fosse parte di te.
Questo concetto con il quale avevo già lavorato con le mie opere d’arte, trova comodamente il suo posto anche nelle creazioni legate a Sunset Yogurt, solo che tramite un’estetica divertente e l’umorismo rendo tutto più morbido, giocoso e facile da accettare.
VN: E infatti il tuo lavoro ha sempre un tocco di umorismo.
CM: Quando ho fondato Sunset Yogurt, la mia esigenza principale, oltre a dare una scossa al vetro, era usare l’umorismo come strumento di accettazione. Volevo che il mio lavoro facesse riflettere, ma senza prendersi troppo sul serio. Perché a volte, ridendo, si riesce a dire molto più di quanto si direbbe con un discorso serio.

VN: Questo è interessante, che poi si è trasposto anche nella collezione sulle pillole, sulla salute mentale.
CM: Sì, sicuramente. Ad un certo punto il pubblico si aspettava quasi un filone anatomico. Non voglio essere l’artista isolato che si guarda solo dentro di sé, quindi osservo e raccolgo stimoli dall’esterno. La Collezione ‘Pills (Andrà tutto bene)’ tratta il tabù della psiche mentale e di come il confine tra normalità e non, si fa labile, sempre più labile.
Quando ho fatto le tettine, per esempio, il mio intento era parlare di una forza femminile al di là della sessualità. Il seno ha una funzione che non è sessuale, anche se viene visto così. Il seno ha la funzione di nutrire, per me quindi rappresenta il simbolo di una forza generosa, non distruttiva. Ho deciso di farle carine come caramelline e non credevo ci fosse nulla di minaccioso.
Eppure ho visto molte persone che si sono “offese”, anche prima di darmi il tempo di spiegare. Ho quindi capito che questo era un tabù che andava approfondito. Così ho fatto la collezione Gioielli di Famiglia. dove ho rappresentato ingenuamente genitali di colori pastello, con una risata liberatoria siamo potuti andare oltre.
Dopo di questo è arrivato il periodo del Covid, che ha messo alla prova la psiche di molte persone ed ho sentito che c’era bisogno di parlare di salute mentale. E così ho scelto quella parte del corpo che porta tutto avanti: la mente.
VN: E com’è stata accolta?
CM: Molto bene, e in particolare da quando ho questo spazio più intimo e a tu per tu con le persone, succede spesso che mi raccontino di loro. Anche per quanto riguarda le creazioni su misura, c’è chi vorrebbe un occhio che somigli a quello di una persona cara, una montatura o una composizione particolare.
Con la nuova collezione Andrà tutto bene, mi capita che qualcuno mi chieda di riprodurre una pastiglia specifica, magari perché l’ha aiutato in un momento difficile. Alcuni mi raccontano esperienze personali legate alla salute mentale o dolore, facendomi capire che non ha più senso esista questo tabù.
Con questa collezione ho anche avuto occasione di collaborare con i ragazzi del master 36 in concept art di Bigrock, di H-farm al concept per un gioiello da indossare in testa, da lì è nata I AM OK, piccola serie di gioelli con codice morse di Valium ed Ibuprofene in vetro di Murano.
Allo stesso tempo, assomigliano a pastiglie che chiunque può aver preso: antidolorifici, antinfiammatori, antipiretici ecc. E medicine che chiunque può aver preso. Insomma, questa collezione non è solo un modo per normalizzare il discorso sulla salute mentale, ma anche un invito a riflettere sull’uso dei farmaci. Da un lato, è inutile fingere che vada tutto bene senza affrontare i problemi; dall’altro, non si può neanche affidarsi ciecamente a una soluzione chimica senza interrogarsi. L’equilibrio è la chiave.
Temi che sono anche al centro della ricerca del collettivo artistico Mollified, che porto avanti con Lorenzo Passi dal 2022 e che attraverso la lente del vetro getta uno sguardo antropologicamente ironico sul comportamento umano, e che stiamo esplorando assieme per la prossima mostra che avrà luogo a Luglio alla Galleria Sparc a Santo Stefano Venezia, e quella a Settembre a Villa Albrizzi Marini, San Zenone degli Ezzelini, Treviso.

VN: Parlando, invece, del panorama del gioiello contemporaneo a Venezia, com’è l’ambiente e come ti ci trovi?
CM: Io in generale, sono un po’ un alieno del gioiello contemporaneo, nel senso che mi capita spesso di partecipare a mostre di gioielleria, faccio gioielli ma ho una formazione molto diversa. Non ho una formazione in gioiello, ma in vetro e scultura. Quando creo qualcosa, penso prima di tutto al corpo, al bilanciamento, poi all’estetica e spesso senza schizzi preliminari, ma con le mani direttamente in pasta. Chi ha una formazione classica in gioielleria parte da un approccio diverso da quanto ho potuto vedere.
Negli ultimi anni, comunque, vedo molto fermento. L’Accademia di Venezia ha da poco aperto una sezione di gioiello contemporaneo e sempre più artisti stanno sperimentando con il vetro in questo ambito. Io stessa, dopo anni in cui desideravo approfondire le tecniche orafe, ho vinto una borsa di studio da una fondazione americana per un corso intensivo ad Alchimia, scuola di gioiello contemporaneo a Firenze. Non tanto per lavorare i metalli preziosi, quanto per costruire meglio attorno al vetro e superare i limiti della semplice minuteria.
Per me il gioiello contemporaneo non deve essere solo un oggetto ornamentale o un’opera da passerella impossibile da indossare. Deve avere un concetto forte, ma anche la capacità di entrare nella vita quotidiana, di essere portato per strada e raccontato. Ecco perché mi interessa più l’energia umana dietro un pezzo che la perfezione tecnica assoluta. Il gioiello può essere una scultura indossabile, un mezzo per far circolare idee e storie. E in questo senso, c’è ancora tantissimo spazio per sperimentare. Certo, voglio comunque mantenere una linea più accessibile, con minuterie semplici che resistano all’uso quotidiano, ma il mio obiettivo è anche superare i limiti del gioiello classico. Se rimane sempre un orecchino, un anello, un pendente – per quanto speciale – alla fine è sempre la stessa cosa. Riflettendo con lo stesso modo a cui mi approccio alle opere d’arte sono nati pezzi più scultorei. E da lì si è aperto un mondo di possibilità che nel gioiello tradizionale non esistono, mentre nell’arte possono esistere, ma spesso rimangono chiuse nelle gallerie.
VN: Come vedi l’evoluzione di Sunset Yogurt nei prossimi anni? Collaborazioni, nuove direzioni?
CM: L’oreficeria è un passo importante e voglio approfondirla. Anche a livello di strumenti, devo lavorare per attrezzare ulteriormente lo studio. Mi interessano molte tecniche con cui ho potuto fare esperimenti, ma tecnicamente c’è tanto da imparare.
Con il collettivo Mollified stiamo cercando di dare visibilità ad artisti che lavorano con il vetro, come strumento di arte contemporanea e di collaborare tutti assieme per creare un panorama del vetro che ci possa rappresentare e non solo decorare.
Sarebbe bellissimo, in futuro, avere più tempo da dedicarci e creare uno spazio dove le persone possano riunirsi, imparare e sperimentare collettivamente.
VN: Un laboratorio condiviso?
CM: Sì, ma questo non è possibile solo con fondi privati. Servirebbe anche un supporto pubblico. Se ci fossero fondi statali, si potrebbe aprire uno spazio dedicato all’aggregazione e alla formazione. Ora come ora, ogni artigiano e artista deve fare tutto da solo. Sarebbe bello poterci dedicare più al progresso del gioiello contemporaneo e del vetro, soprattutto a Venezia. Un sogno sarebbe un laboratorio su tre piani: uno spazio di lavoro, un hub, un punto d’incontro, residenze, una sala espositiva…Ma un passo alla volta.
VN: Se qualcuno volesse intraprendere questa carriera, che consigli daresti?
L’errore più grande è pensare di arrivare a Murano e trovare subito un posto fisso. Non funziona così. Non dico che ti stanno facendo un favore, perché è un lavoro e una tradizione che rischia di morire, ma neanche che ti accolgono a braccia aperte. Però è un materiale meraviglioso al quale bisogna dedicare tutta la vita, non è un materiale che ti viene incontro, ma che ti tempra e che finisce per darti moltissimo. Ci vorrebbero convenzioni con le scuole, per far nascere più interesse. Poi servirebbero agevolazioni per chi vuole imparare. Io, per esempio, vorrei prendere uno stagista, ma è complicato a livello burocratico. Ci sono corsi, anche se costano un po’, però in un mese puoi capire le basi, poi devi fare esperienza. Ma è un materiale che chiede tanto. Se cerchi un guadagno veloce, non è la strada giusta. Serve perseveranza. È come l’incisione calcografica: devi lavorare con i suoi tempi, senza fretta. Il vetro è così. Ti piega lui, non il contrario. Meglio accettarlo e lasciarsi modellare da lui: un po’ alla volta si, ti sciogli.