Designer di lampade in vetro di Murano, fondatrice del brand Aventurina Design, Silvia Finiels ha da poco creato un nuovo spazio atelier e showroom a Murano, affacciato sulla splendida laguna nord, dove trascorre le sue giornate creando, assemblando e lasciandosi ispirare. Le abbiamo fatto visita per esplorare insieme il suo processo creativo e il suo legame con Venezia e la sua tradizione vetraia. Studio Visit è una serie di Inside Venice che racconta le botteghe, gli atelier e gli studi d’artista attraverso le storie uniche dei creativi che lavorano in città.
Intervista e foto di Valeria Necchio
VN: Ti ricordi della prima volta che sei venuta a Venezia?
S.F: Sono venuta per la prima volta con un’amica per la Biennale, era intorno al 1985, c’era poca gente, Mi ricordo, mentre camminavamo e camminavamo, di aver provato una sensazione di grande libertà. Poi sono tornata perché lì ho incontrato mio marito, che è un veneziano di nascita, e mi ha fatto amare la città. All’epoca mi trovavo a Milano per lavoro, ci siamo incontrati per caso, e poco dopo ho pensato che Milano non mi piaceva più, che volevo andarmene –– l’ho trovata una città difficile, complicata, fredda. Anche se poi, ripensandoci, rivedendola, ho cambiato idea (Milano è un fulcro per la creatività, per il design, e dunque anche per il mio lavoro). E così sono tornata a Venezia, e sono rimasta. Sono qui da 35 anni.
V.N: Hai un background artistico. Qual’è stata la tua formazione e cosa ti ha portata a fare quello che fai oggi, nel design dell’illuminazione?
S.F: In Francia ho studiato disegno e stilismo, una scuola sartoriale, diciamo. Poi per tre anni ho fatto una scuola, a Lione, specializzata nella tradizione della seta. E infine ho fatto una scuola di stampa su tessuto, una materia che mi piaceva moltissimo, molto più che disegnare e cucire in verità – non sono fatta per calcolare i centimetri, lo trovavo molto noioso. Anche nel lavoro che faccio ora con le mie lampade, se ci penso, non inizio mai col disegno, parto direttamente dalla materia: è la materia che mi ispira. Comunque, appunto, da Lione sono tornata a Parigi per fare degli stage nella moda. Ho lavorato con dei grandissimi stilisti come Mugler, erano tutti lì all’epoca, tutti portavano idee nuove, una visione nuova della moda e del prêt-à-porter. Ma sentivo, dentro di me, che avevo bisogno di partire. Dopo qualche viaggio e un’esperienza bellissima al Carnevale di Viareggio, sentivo che l’Italia mi stava chiamando. E così ho fatto.
V.N: Come sei passata dal tessuto al vetro?
S.F: Il passaggio al vetro è avvenuto grazie a mio marito. Quando l’ho conosciuto, aveva un negozio e vendeva delle perle di vetro dell’Ottocento, delle murrine fantastiche. Un anno dopo, ha scoperto e acquisito una grande quantità di perle del Novecento –– una collezione emersa così, apparentemente dal nulla. Così ho iniziato a fare delle collane, pezzi unici fatti a partire da queste perle incredibili. Da lì abbiamo continuato a lavorare sempre di più con le perle antiche e siamo diventati collezionisti. Per me è stata l’occasione per toccare con mano il mondo variegato del vetro, delle filigrane, delle materie, delle calcedonie, delle murrine, della foglia d’oro, di tutte le tecniche dell’ottocento e del novecento legate alle perle, che sono una parte incredibile della cultura veneziana che si è diffusa in tutto il mondo. Per dieci anni ho fatto questo, e a stento mi rendevo conto del privilegio che avevo nell’essere parte di questo microcosmo, e del tesoro con cui lavoravo ogni giorno.
Dopodiché, abbiamo deciso di cambiare, di vendere la collezione di perle e di fare gli antiquari. Negli anni ‘90 c’era il boom degli antiquari in Italia, si trovavano delle cose straordinarie. E così abbiamo girato l’Italia su uno Chevrolet per comprare e vendere, a far mercati e mercatini. E poi, quando ci siamo stancati, abbiamo venuto il furgone e abbiamo preso un negozio a San Polo. Vendevamo vetri. Giorgio aveva questa capacità di trovare tutto quello che cercava, di parlare con le persone e di farsi aprire le porte di posti magici –– cappannoni pieni di vetri pazzeschi, dei tesori che neanche loro sapevano di avere. In uno di questi abbiamo trovato anche dei pezzi di Ettore Sottsass, che è stato un grandissimo innovatore, ha travolto la storia del vetro di Murano con la sua creatività, col suo uso del colore. E sempre qui ho visto che c’erano alcuni pezzi che non erano vasi né bicchieri, erano parti. E da lì mi è venuta l’idea di fare lampade e di sviluppare la mia tecnica, dove monto, assemblo e incollo questi pezzi per creare qualcosa di sempre diverso. All’inizio mi ha aiutato un uomo di nome Franco. Per lavoro lo mandavano in giro per il mondo a smontare i lampadari di Murano. Lui ha montato le mie prime lampade, e mi ricorderò sempre questa sua gioia, questa sua gentilezza. Grazie a lui ho imparato come fare. Ora sono autonoma: sono più di 15 anni che faccio lampade e nel tempo ho elaborato uno stile molto personale.
V.N: Come definiresti il tuo stile?
S.F: All’inizio avevo dei bellissimi pezzi ma non avevo uno stile; mettevo semplicemente insieme gli elementi che si assomigliavano. Adesso, essendo che compro vetri da molti anni, e dunque avendo un bel bacino da cui attingere sia a livello di epoche che di tecniche, di colori e di spessore, scelgo gli elementi in base a una palette, a delle “famiglie”, e seguendo questo metodo assemblo elementi che sono coerenti e in dialogo tra loro ma che sono anche contrastanti. Attraverso il contrasto si valorizzano a vicenda. Insomma, il mio è uno stile di composizione, abbinamento e assemblaggio. Dico stile anche se in realtà sono tanti stili: le mie ricerche riposano su mille designer, mille fornaci, mille artisti. Prendo un pezzo qui, un pezzo lì, li taglio, li lucido, li modifico, li rielaboro, li preparo per un nuovo scopo, e infine li metto insieme, facendone qualcosa di mio, cercando i volumi e armonie in modo anche molto intuitivo. E alla fine ci sarà, in questa diversità, un feeling, un qualcosa che tiene insieme tutto, perché le persone mi riconoscono e riconoscono il mio lavoro.
“La cosa più noiosa per me è rifare, riprodurre le stesse cose. A me piace creare. Nella ripetizione avevo inziato a perdere di vista la bellezza del vetro, la vedevo come una materia fredda. Sottsass mi ha aperto gli occhi sul suo potenziale creativo, e mi ha dato la spinta per diversificarmi.”
V.N: Che cosa ti ispira nel tuo processo creativo?
S.F: l’ho nominato prima, ma Sottsass mi ispira moltissimo perché è la personificazione della gioia. Ho letto i suoi libri e trovo che fosse una personalità leggera, un vero creativo: mixava le cose, aveva una grande libertà nella creazione. Mi ha ispirato perché in lui ho intravisto la possibilità di giocare col vetro –– con questa materia che a volte può sembrare estremamente pesante, nel senso di schiacciata dalla tradizione, ripiegata su sé stessa, oppure piegata alle logiche di mercato. La cosa più noiosa per me è rifare, riprodurre le stesse cose. A me piace creare. Nella ripetizione avevo inziato a perdere di vista la bellezza del vetro, la vedevo come una materia fredda. Sottsass mi ha aperto gli occhi sul suo potenziale creativo, e mi ha dato la spinta per diversificarmi.
V.N: Le tue lampade sembrano quasi delle sculture.
S.F: Sì, trovo sia bello che il vetro sia innalzato a scultura, perché è una materia incredibile, forgiata dal fuoco, e di cui è difficilissimo trovare il colore giusto…Per questo mi piace anche valorizzare tutti i colori del vetro che ci sono, soprattutto quelli che non si sono più –– ad esempio c’è una nuova norma europea che giustamente vieta di utilizzare l’arsenico e il piombo; ma questo significa che ci sono dei colori che non esistono più, perché con l’arsenico si faceva l’opalescente, con il piombo si faceva un rosso bellissimo. E io ho il privilegio di lavorare con queste meraviglie, con dei pezzi rari, e quindi è importante per me dargli il giusto valore.
V.N: Parlavo di recente con Elena e Margehrita Micheluzzi, e mi raccontavano appunto delle formule dei colori della fornace con cui lavorano. E parlavamo del fatto che la ricetta è una forma letteraria –– forse l’unica forma letteraria –– che si traduce in azione, e che contiene al suo interno la variabile dell’errore umano.
S.F: Qualche volta è una cosa meravigliosa perché l’errore porta a una scoperta. Qualche volta invece no; qualche volta scoppia tutto. È un lavoro, è una sorpresa continua, ma ci vogliono le ricette e l’esperienza in queste persone, che per arrivare a fare quello che fanno hanno investito una quantità di energie, di lavoro e di materia incredibile. E tutto questo non deve essere sprecato. Questo è il tesoro di Murano, ed è fatto anche di piccoli libricini con dentro le ricette dei colori.
V.N: Come sta Murano secondo te? Come la vedi nel futuro prossimo?
S.F: Per fortuna a Murano ad un certo punto è arrivato un seme diverso: Berengo. Berengo è arrivato come un germe di qualcosa di nuovo e da lì è cresciuto un albero che dà ombra, che dà frutta. Berengo ha saputo fare, ha saputo utilizzare senza sfruttare, lavorando in maniera bella e intelligente con grandi artisti interessati a lavorare con il vetro e a portare il loro sapere, il loro nome, i loro interessi. Questa cosa ha fatto molto bene all’isola. Ce ne sono anche altri, il primo certamente è stato Paolo Venini, che è venuto con delle idee da imprenditore milanese e che ha saputo valorizzare e, di conseguenza, anche vendere, cercando collaborazioni con artisti brillanti, intelligenti, raffinati, che avevano una conoscenza dell’armonia, della materia, della ricerca, e una grande curiosità. Come vedo Murano oggi? Vedo che Murano si salva perché ha saputo ritrovare le sue lettere di nobiltà, la sua qualità. Il problema sono le scuole. Oggi devi andare a Seattle per imparare a fare il vetro con Lino Tagliapietra. Ci sono dei grandi potenziali ma i cervelli vanno all’estero se non si sentono valorizzati qui. Credo che Murano debba tornare a valorizzare quest’arte dal punto di vista educativo, perché noi artisti, senza i vetrai bravi che sanno fare anche ricerca, facciamo la valigia e ce ne andiamo.
V.N: Quali sono stati, oltre a tuo marito, gli incontri o dei momenti che ti hanno fatto vedere Venezia con occhi diversi?
S.F: Mio marito, che aveva vent’anni più di me, mi ha passato l’entusiasmo per le cose belle. Era un’artista e un entusiasta, e sapeva comunicare la bellezza. Mi ha fatto conoscere tantissime persone che, come lui, amavano Venezia in modo spassionato; e mi ha fatto amare questa vita molto umana, molto legata alle persone, alla gente, agli incontri, al parlarsi e incrociarsi per strada. E di fatto Venezia è diventata una figura materna per me. Mi ha dato tutto, mi ha dato una ragione, un senso di vivere, mi ha dato una nuova vita. Io sono rinata a Venezia. Forse la sofferenza verso l’affollamento che vediamo oggi è legata a questo: al sentirsi espropriati della propria casa, al non riuscire a riprodurre questi rituali che ci sono così cari. E poi, una grande illuminazione per me è stata la presa di coscienza di una città che non è solo città, ma che è immersa in un polmone più ampio, in una laguna che è ancora, per tanti versi selvaggia, e dunque spirituale, che regala delle esperienze estetiche meravigliose, tra tramonti, voli di uccelli, cieli tersi. Venezia è spiritualità. Questa città ha un’anima e la senti visceralmente.
V.N: Sono profondamente d’accordo; per me, si tratta di un’esperienza che si consuma tra calli quiete e angoli defilati: c’è bisogno di silenzio, per percepirne il mormorio.
S.F: L’esperienza estetica è una forma di fede. La fede supera l’uomo. E Venezia, anche Venezia supera l’uomo. Venezia è fatta di strati di cose, di case, di chiese, di persone, di storie. E poi ha quest’acqua che passa, che l’oltrepassa, che l’attraversa, che la riflette e che regala una sensazione di euforia, di gioia nel godere di una bellezza così piena eppure così semplice. Una gioia che cura. Una carezza.