La sento sospirare. Da almeno cinquant’anni. Potrei dire da prima, ma credo che i bambini distinguano razionalmente le diverse vibrazioni del senso dell’udito intorno ai tre anni. Il primo rumore di Venezia è il frangersi dell’acqua del Canal Grande sulle banchine del vaporetto. Per noi, comunque foresti, la stazione è l’approdo. E, varcata l’ultima porta a vetri presente in uno scalo ferroviario italiano, c’è il silenzio di Novembre o il trambusto di Giugno, la pioggia di Aprile con l’odore di salso o la canicola di Settembre con le alghe che ardono.
Comunque, Venezia è un ecosistema altro, da quello di provenienza di tutti. Sospira e si agita. Il motivo si può intuire. Nessuna città al mondo ha dovuto piantare le sue radici, nel nulla e nell’imponderabile. Per tutte le altre, nulla più di qualche metro di terra scavata, qualche blocco di fondamenta e poi un lieto appoggiarsi. Venezia invece è viva e fluttua. Sospesa sul pelo dell’acqua. Tocciata nella laguna invisibile. I suoi palazzi sono l’ultimo Consiglio dei Dogi. Guardano milioni di pellegrini e li giudicano. Forse a volte li disprezzano per la loro incuranza o li compatiscono per il limite umano di comprenderne in poche ore la bellezza, viva per natura, che Venezia esprime senza fatica alcuna.
Mettere piede a Venezia significa camminare su quella piattaforma di quercia e rovere, sormontata da una cute di masegni, che sono cellule epiteliali. Ma in quale città della contemporaneità si cammina ancora sulla pietra? Potendo pensare che questa, a scapito del volume apparente, possa essere in verità una zattera ancorata. Venezia sospira d’affanno perché cerca aria. Reclama ossigeno per le sue calli, per poter trattenere il respiro sott’acqua. Solo in questo contesto urbano ti senti immerso, eppure circondato.
Il dubbio è che Venezia vivrebbe una vita più lunga in beata solitudine. Ce lo avrebbe anche già dimostrato. Ma forse era apparenza, estetica fine a sé stessa. Perché Venezia respira, perché siamo noi a sospirare per lei. È un rapporto simbiotico, che non deve conoscere reciproci sbilanciamenti. Se a Venezia non ci fossero i vivi, ciacolatori, fanti e comari, a istigarla al pensiero continuo, a spronarla all’inclusione culturale, a proteggerla da se stessa, dalla scellerata idea di occupato una laguna, allora la Serenissima vivrebbe del riflesso della sua vanità, consegnandosi all’oblio. Invece ogni città non è fantasma, per quanto la sua avvenenza possa contare su una buona dose di autosufficienza, solo se trova condividere i suoi spazi, l’attitudine e la giornata che diventa secolo ed eternità. Soprattutto se trova qualcuno che possa tradurla, parlare la sua lingua e connetterla con il futuro, permetterle di spiegarsi e quindi di esistere.
Venezia è viva perché ci sono i suoi interpreti, che hanno scelto di abitarla, di esserne i messaggeri, di vederla imperitura mentre loro invecchiano. Perché per paradosso, Venezia ha bisogno di tempo. Ma non per sé stessa, ma per donarsi ed essere compresa nelle radici che ha innestato nell’incertezza. La sua maestosa fragilità genera un’empatia e palpitazione. I battiti dei tutti sono il metronomo della sua aritmia, così sofferta così unica.
Giovanni Audiffredi è Editor in Chief di Esquire Italia.
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