Yasra Pouyeshman, laureata in ingegneria in Iran, è arrivata in Italia per studiare archeologia a Roma, ma ha finito per scoprire l’Italia attraverso il cibo e il vino. Trasferitasi a Venezia per lavoro, la passione per il cibo l’ha portata a diventare sommelier e a specializzarsi nella degustazione di vino e olio, ma la pandemia ha stravolto i suoi piani. Non ha però rinunciato al sogno di un’attività propria: oggi gestisce un negozio di oggetti d’artigianato artistico, Kooch, con pezzi unici che seleziona personalmente tra artigiani e artisti in Iran. Sceglie pezzi legati allo slow living, una filosofia che abbraccia sia nella vita che nella sua attività. In questa intervista per Gli Incurabili, Yasra racconta il suo percorso, i ricordi legati all’arrivo in laguna e il suo sguardo critico, ma profondamente innamorato, su una città che continua a sorprenderla.
INTERVISTA DI VALERIA NECCHIO
FOTO DI YASRA POUYESHMAN // RITRATTI DI VALERIA NECCHIO
VN: Inizierei dal tuo arrivo in città. Che cosa ti ha portato, quando e perché?
YP.: Sono arrivata a Venezia nell’aprile del 2019. Prima vivevo a Roma da 11 anni, dal 2008, e per 9 anni ho lavorato con un gruppo che gestiva diverse enoteche. Negli ultimi anni, mi occupavo proprio della gestione delle loro enoteche, ma a un certo punto ho deciso di cambiare e cercare nuove esperienze. Da tempo avevo in mente l’idea di trasferirmi a Venezia, quindi, quando è arrivata un’interessante opportunità di lavoro, l’ho accettata con entusiasmo e mi sono trasferita subito.
VN: Quindi sei arrivata per lavoro. Un’esperienza che avevi sempre voluto fare?
YP: Sì, amo lavorare, creare, progettare, sperimentare e risolvere problemi. Oltre alla mia curiosità per Venezia, ciò che mi ha spinta a venire qui è stata proprio la proposta di lavoro. Nel 2019, dopo aver iniziato questa nuova avventura, ho vissuto un periodo sia difficile che stimolante: avevo un obiettivo da raggiungere e ci sono riuscita. Abbiamo fatto passi molto importanti nel progetto, ma poi è arrivata l’acqua alta, seguita dalla pandemia, che ha bloccato tutto. A quel punto, ho deciso di cambiare di nuovo: ho lasciato il lavoro per intraprendere una nuova avventura, cioè fare le vendemmie, con il desiderio di realizzare un giorno un mio progetto.
VN: In quel momento hai pensato di lasciare la città?
YP: No. In quella situazione, l’ultima cosa che avrei potuto pensare era andarmene di nuovo. Avevo già lasciato Roma, avevo appena iniziato a conoscere nuove persone… L’idea di ricominciare da capo era impensabile. Credo che, comunque, sarei rimasta. Non ho mai sentito il desiderio di andarmene.

VN: Come sono stati quei primi mesi? Come hai trovato la città?
YP: Sono venuta a Venezia principalmente per un progetto di lavoro, quindi ero molto concentrata su quello. Quasi non saprei raccontare quei primi tempi al di fuori del lavoro. Ricordo però che il secondo giorno dopo il mio arrivo c’è stata un’acqua alta straordinaria. Seguendo il consiglio di un amico veneziano, sono andata in Piazza San Marco per osservare la situazione: l’ho trovata incredibile e anche un po’ spaventosa, almeno per me, che vedevo l’acqua alta per la prima volta. Tornando verso il mio alloggio, l’acqua era talmente alta che non si capiva dove finiva il canale e dove iniziava la fondamenta.
Essendo nuova in città e conoscendo poche persone, passavo la maggior parte del tempo con i miei colleghi, quindi avevo poche occasioni per socializzare o scoprire posti nuovi. Poi, con l’arrivo del Covid, tutto si è confuso nella mia testa. I ricordi di quei mesi sono mescolati, offuscati. Ricordo però il Carnevale del 2020: ero qui da un anno e mi sembrava tutto affascinante. È stato l’unico Carnevale in cui ho cercato davvero di staccare dal lavoro e godermi la città.
VN: In che zona abitavi?
YP: Abitavo a Santa Croce e lavoravo vicino alla stazione. Ma ho iniziato presto a esplorare la città, soprattutto perché, lavorando nel mondo del vino e del cibo, volevo scoprirla anche da quel punto di vista: cosa si beve, dove si trova il meglio.
“Nel mio lavoro vivo tutte le glorie e la bellezza, i dolori, le lotte, le sconfitte, le vittorie, la storia, l’arte, il passato, il presente e il futuro della mia madrepatria, nel cuore della mia seconda casa.”
VN: Hai sempre lavorato nel campo dell’enogastronomia?
YP: In Italia, sì. Ho iniziato un po’ per caso, perché volevo lavorare e mi affascinava il mondo delle enoteche. Ho cominciato come commessa, ma ho sempre avuto voglia di crescere, così mi sono formata autonomamente. Ho seguito corsi di sommelier per il vino e per l’olio, e alla fine sono diventata un’esperta. La mia specializzazione, però, è sempre stata nella vendita, più che nella ristorazione. Le enoteche con cucina mi piacevano e ci ho anche lavorato, ma il mio focus è sempre stato sulla vendita.
VN: Arriviamo a oggi. Com’è nata l’idea del tuo negozio, Kooch?
YP: Quando sono arrivata a Venezia da Roma, mi sono chiesta: ma come mai qui siamo così indietro? Ancora oggi non capisco perché, in una città così unica, ci siano così pochi progetti altrettanto unici. Se li contiamo, non arriviamo alle dita di due mani. Per fare una buona colazione devi camminare molto, la maggior parte dei posti offre solo brioche surgelate, oppure il caffè è scadente. Per bere bene, ci sono pochi locali, che tra l’altro vendono quasi tutti gli stessi vini. Un jazz club? Non c’è. Un buon gelato? Pochi. Un posto dove comprare una buona pasta o un buon olio? Quasi inesistente.
All’inizio è stato uno shock. Così, visto che ero anche diventata sommelier dell’olio e che a Roma mi rifornivo da negozi specializzati, a un certo punto ho pensato che sarebbe stato bello aprire un’oleoteca: avevo già tutto pronto, dai fornitori alla lista dei prodotti, fino al business plan.
Nel frattempo, avevo una borsa comprata in Iran da una designer con cui, tra l’altro, oggi collaboro molto. Un giorno una mia coinquilina di Roma è venuta a trovarmi e, mentre eravamo in giro, tante persone mi fermavano per chiedermi di quella borsa. Alla fine, lei mi ha detto: “Ma perché non apri un negozio e le vendi?”.
Ripensandoci, prima di arrivare a Venezia, ho passato un anno in Iran. Sono tornata perché mia mamma era venuta a mancare e stavo molto male; volevo stare vicino alla mia famiglia (ho due sorelle e un fratello). Poi sono tornata in Italia, ma durante quell’anno ho lavorato in un negozio di Teheran—uno dei primi e più importanti in Iran nel presentare l’artigianato moderno e contemporaneo. Quindi la borsa, la coinquilina e questa esperienza pregressa mi hanno messo una pulce nell’orecchio… Anche perché in quegli anni sentivo molto la mancanza di conoscenza dell’Iran contemporaneo. La realtà del Paese è molto diversa da quella che viene raccontata. Spesso si parla dell’Iran solo in relazione a questioni politiche, mentre raramente si menzionano arte contemporanea, artisti, artigiani e designer che, nonostante l’isolamento del Paese, continuano a creare e andare avanti. La maggior parte delle persone ha sentito nominare l’Iran per altri motivi, ma io volevo raccontare ciò che sta succedendo oggi.
Poi ho trovato il locale giusto. L’avevo visto nell’estate del 2021, c’era un numero sulla porta e un mio amico, vedendomi indecisa, ha chiamato per fissare subito un appuntamento. L’ho visitato e me ne sono innamorata. Ho firmato il contratto con apertura a marzo 2022, quindi ho avuto qualche mese per organizzarmi e decidere cosa metterci dentro. Non poteva essere un alimentari per via dei permessi, così ho abbandonato l’idea dell’oleoteca, anche perché avevo deciso di allontanarmi dal mio lavoro precedente.
Ed è così che è nato Kooch, un luogo in cui mi sento meno estranea rispetto a qualsiasi altro posto. Qui vivo tutte le glorie e la bellezza, i dolori, le lotte, le sconfitte, le vittorie, la storia, l’arte, il passato, il presente e il futuro della mia madrepatria, nel cuore della mia seconda casa.
A dirla tutta, non so nemmeno con quale coraggio mi sono buttata. Non ero del tutto inesperta: avendo gestito una catena di più di 20 negozi, conoscevo bene il lavoro, quindi non posso dire di essermi lanciata nel buio più totale. Solo che, subito dopo la pandemia, nessuno sapeva cosa aspettarsi. Per questo dico che sono stata coraggiosa: era un po’ come giocare a poker. Una parte non dipendeva da me, ma per il resto ero molto preparata. E poi non avevo mai fatto import-export: quella è stata una vera curva di apprendimento. Pensa che alla prima spedizione la merce è arrivata in dogana e sono andata di persona a sdoganarla! Poi, l’Iran vive sotto sanzioni da 16-17 anni, quindi è tutto complicato, anche pagare gli artigiani. Ma, nonostante ciò, l’ho fatto.Nel mondo del vino, ho sempre sostenuto lo slow wine. E Kooch rappresenta perfettamente lo slow living e la slow fashion. Qualsiasi cosa farò nella vita sarà sempre in questa direzione. Venezia, in un certo senso, è perfetta per questo stile di vita e questo pensiero.

VN: Mi racconti del lavoro di curatela che fai all’interno del negozio? Come scegli gli artigiani con cui lavorare o i pezzi da vendere?
YP: Le scelte le faccio sempre io, tranne in alcuni casi in cui lascio carta bianca agli artisti. Con alcuni, soprattutto i ceramisti, preferisco non imporre nulla: dico loro “Fai tu, mandami quello che vuoi” e lascio che siano loro a decidere. In Iran abbiamo un detto: se fai qualcosa con il cuore, quell’energia rimane nell’oggetto, e chi lo guarda la percepisce. Per questo non voglio forzare troppo il processo creativo, per non rischiare di disperdere quell’energia. Quindi, una parte degli oggetti in negozio non la scelgo direttamente. A volte decido la forma ma non il colore, altre volte viceversa. Lavoro a stretto contatto con i miei fratelli, che sono il mio team in Iran, e questa è una delle cose che mi rende più felice.
VN: A Venezia, come trovi lo scambio sia con la cittadinanza che con chi è di passaggio?
YP: Con i locali si è creato fin da subito un bellissimo rapporto. Questa città si è svuotata negli anni, e quando ho aperto, molti erano semplicemente curiosi di vedere questo atto in controtendenza. Poi, dopo tre giorni, ho ricevuto una lettera dal Comune: mi davano cinque giorni di tempo per chiudere, accusandomi di vendere paccottiglia. Lì ho avuto paura, ho trovato un avvocato, ma nel frattempo tantissime persone hanno scritto al Comune, allegando foto del negozio e difendendomi. Sono finita sui giornali locali e, involontariamente, il Comune mi ha fatto una pubblicità enorme. I miei vicini di negozio sono stati fantastici, e la zona in cui mi trovo ha negozi molto belli ed è abitata da persone speciali. Per me sono diventati una famiglia.
VN: Sei riuscita a trovare il modo per raccontare l’Iran nel modo che volevi?
YP: Quando le persone entrano, spesso mi chiedono di me, della mia storia. Parlo molto di politica, perché mi viene chiesto. L’informazione che arriva dai media è sempre parziale: già io, pur avendo una famiglia in Iran, ho una visione limitata, ma sicuramente diversa da quella che si sente in TV. È importante ascoltare prospettive diverse.
Detto questo, il mio obiettivo non è trasmettere la cultura iraniana. Il mio scopo è essere un ponte tra chi vive in Iran, isolato dal resto del mondo a causa delle sanzioni e della situazione politica, e il pubblico esterno. Certo, c’è la vendita, ma soprattutto lo scambio di idee. Ho avuto clienti tra designer, artisti, attori, giornalisti piuttosto famosi, e tutto ciò lo devo anche a Venezia, un gioiello unico che continua ad attirare persone che cercano e amano la bellezza.
Lavoro solo con artisti e artigiani che attualmente vivono in Iran. Ma non sono io a dover trasmettere la cultura iraniana, non ne ho neanche le competenze. Però, attraverso gli oggetti e le storie che porto, racconto un Iran contemporaneo, che spesso rimane sconosciuto. E poi, una boutique iraniana a Venezia non è affatto fuori luogo, anzi, è perfettamente in linea con la storia della città. Venezia è sempre stata un punto di incontro tra Occidente e Oriente, un crocevia di commercio, arte e architettura.
“Chi arriva a Venezia deve restare a bocca aperta—e già succede. Ma dovrebbe anche capire subito come rispettarla. Basterebbe poco.
VN: È come se avessi restituito un frammento della vocazione antica di Venezia, della sua apertura verso l’esterno.
YP: Lo spero con tutto il cuore. Mi fa piacere quando mi dicono che ho una delle vetrine più belle di Venezia, ma per me è anche una nota di tristezza: questa città dovrebbe essere bella dall’inizio alla fine. Ci sono negozi belli, ma non basta. Il turismo sta soffocando la creatività.
All’inizio, molti mi dicevano che non sarei durata più di un anno. C’è questa convinzione diffusa che a Venezia possa funzionare solo un business legato esclusivamente ai turisti. Il problema è che nelle città iper-turistiche, lasciate andare senza una visione, si perde la creatività. Non c’è più concorrenza; puoi fare ciò che vuoi. La città è diventata un luogo di passaggio, dove non serve fidelizzare i clienti perché “vanno e vengono”. Puoi fregartene di tutto. Venezia si riempie e si svuota ogni giorno; basta vedere cosa succede durante il Carnevale, quando tutti vengono a festeggiare una tradizione storica della città… indossando maschere cinesi! L’amministrazione non si impegna nemmeno a raccontare ai visitatori la storia di Venezia e del Carnevale. Questo mi fa arrabbiare tantissimo.
Bisogna tornare a lavorare per passione. I soldi sono importanti, ma non possono essere l’unico motore. Io lavoro così, con passione, altrimenti sarebbe una tortura alzarsi la mattina.
VN: Quando hai un giorno libero, c’è qualcosa che ti piace fare in città?
YP: Prima di aprire il negozio, andavo sempre a San Michele, all’associazione Laguna nel Bicchiere. È un luogo speciale: un vigneto e una cantina nel cimitero, dove si può fare il vino e partecipare alle attività. Adesso ho meno tempo, ma per me era un paradiso. Mi piace anche uscire da Venezia. Restare sempre qui è soffocante: più rimani, più diventa difficile andarsene. Cerco di farlo ogni volta che posso. E poi, per avere nuove idee, bisogna vedere posti nuovi, viaggiare. È come uno sport: è faticoso, ma devi farlo. Quando ho tempo, faccio lunghe camminate a Sant’Erasmo o al Lido, soprattutto d’inverno. Camminare mi piace molto.
VN: Diresti che nei tuoi momenti liberi ti ricarichi da sola?
YP: Sì, sono abituata ad avere tempo per immergermi nel mio mondo, ascoltare il mio podcast, la mia musica, leggere il mio libro… ho sempre bisogno di quei momenti solo per me.
VN: Anche perché lavori a contatto col mondo.
YP: Sì, nel mio lavoro vedo tante facce nuove, ed è bello, ma può essere anche stancante. Quando un cliente diventa abituale, cambia tutto. Lavorare solo con perfetti sconosciuti può essere faticoso. Soprattutto quando le conversazioni rivelano molta disinformazione: è uno scoramento continuo. Qui spesso mi chiedono: “Oltre a San Marco, in città, cosa c’è da vedere? Ci sono altri monumenti?” E io rispondo che ci sono sopra al monumento. Che il monumento è la città stessa. Pochissimi arrivano sapendo davvero qualcosa su Venezia. E io mi chiedo: non vi incuriosisce saperne di più?
Una volta qualcuno ha detto una frase che mi è rimasta impressa: dobbiamo tornare ad essere viaggiatori, non turisti. Ecco, è questo.
VN: Secondo te, cosa servirebbe con urgenza alla città?
YP: Serve una comunicazione chiara su dove ci si trova. E avere il coraggio di fare scelte ambiziose. Chi arriva a Venezia deve restare a bocca aperta—e già succede. Ma dovrebbe anche capire subito come rispettarla. Basterebbe poco: un’installazione d’impatto all’uscita della stazione, un’informazione accattivante che in cinque minuti ti faccia comprendere la città. Bisogna insegnare alle persone a rispettare questo gioiello.
Una volta tre turisti, anche molto giovani, per entrare a Kooch hanno lasciato il loro bicchiere di plastica e la coppetta di gelato per terra! Appena fuori dal negozio! Gli ho solo chiesto se anche nella loro città avrebbero fatto la stessa cosa e, visto che evidentemente gli ho chiesto troppo, sono usciti subito. Perché chi non rispetta Venezia non è benvenuto a Kooch.
Nel 2020, ricordo un’opera alla Biennale Architettura: una pianta di Venezia ricostruita su mattonelle rotte. Camminandoci sopra, si rompevano ancora di più. Cercavi di camminare piano per non danneggiarla, ma non era possibile. Quell’opera mi è entrata nell’anima: ogni volta che cammino per la città, mi sento là, su quell’opera, ne percepisco tutta la delicatezza. E mi chiedo: perché non mettiamo qualcosa di simile all’uscita della stazione? Sicuramente qualcuno si divertirebbe a romperla ancora di più, ma manderebbe un messaggio fortissimo: questa città è fragile e non può essere trattata con noncuranza.
E poi, durante eventi come la Biennale, servirebbero collaborazioni di alto livello che mettano Venezia al centro della comunicazione mondiale, creando un’identità chiara e riconoscibile in città. Per esempio: durante Vinitaly, tutti i negozi di Verona hanno qualcosa di legato al vino. Anche se non sei del settore, capisci immediatamente che sta succedendo qualcosa. A Venezia non succede. La Biennale è scollegata dalla città: solo il 10% dei visitatori ne è a conoscenza, ed è la prima e più importante Biennale del mondo!
VN: Quindi serve lungimiranza e criterio.
YP: Esatto. E anche mostrare ai cittadini cosa si fa con i soldi che entrano, come il ticket d’ingresso: investirli in servizi, migliorare la qualità della vita. Venezia non deve restare bloccata, deve evolversi. Se la città cresce in modo organico, anche le persone cambieranno con essa. E così i visitatori. Serve una visione.