Cristina Cappellari è co-founder di Studio Saor, uno studio – e, dal 2021, anche una bottega – di architettura illustrata immerso nel cuore di Cannaregio, tra Campo Santi Apostoli e la chiesetta dei Miracoli. Originaria di Bassano, vive a Venezia da diciassette anni, prima come studentessa di architettura, poi da lavoratrice pendolare verso la terraferma, e infine da libera professionista e imprenditrice. Cristina ci ha raccontato com’è arrivata a Venezia, il suo rapporto con la città, le sue passioni, le sue ispirazioni, e i suoi auspici, rivelando un amore viscerale per Venezia e la sua dimensione umana.
INTERVISTATA DA VALERIA NECCHIO
FOTO DI CRISTINA CAPPELLARI / RITRATTI DI VALERIA NECCHIO
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V: Partiamo dall’inizio della tua storia con Venezia. Da dove è iniziato tutto e in che momento collochi quella prima epifania, il momento in cui hai capito che questo posto aveva qualcosa in cui ti riconoscevi?
C: Era 2005. Mi sono ritrovata in una giornata di sole di settembre a Santa Marta per il test di architettura allo IUAV, circondata da un sacco di gente. Mi sono detta: questo posto mi piace. E da lì è partito tutto, non sono più andata via. Sono una delle poche del mio gruppo a essere rimasta. Mi sentivo a mio agio, libera, immersa in un’atmosfera molto rilassata. Sono passati 17 anni e non me ne sono neanche accorta.
V: Com’era la città in quegli anni?
C: Era diversa. Viverla da studentessa è un’altra cosa, sei in una bolla, il che è bellissimo. Certo, io non la percepivo così piena, ecco. Non sentivo l’ansia delle masse di gente, cosa che adesso, da professionista, un po’ subisco. La testa non è più così libera e frivola, quindi ci si accorge di più delle sue complessità e delle sue difficoltà. La percezione è che stia soffrendo parecchio. E vorrei fare qualcosa. Ma ci arriveremo dopo.
V: Che rapporto hai con la venezianità?
C: Per me la venezianità è il piccolo ma allo stesso tempo il grande, il fatto che puoi conoscere persone da tutto il mondo pur stando in un paesotto in cui ci si incrocia per strada e si va negli stessi posti con le stesse persone tutti i giorni. E’ il ritmo lento, legato al movimento dell’acqua, a certi rumori, a certi tipi di luce, al camminare. Non sei su una macchina che sfreccia sulla statale, sei tu che ti muovi all’interno della città, la senti e la assorbi quando ci cammini, vedi come cambia la luce, i colori e i suoni nelle varie ore del giorno.
Il rapporto con i suoi abitanti è più complesso. Mi infastidisce la pigrizia, la rassegnazione e la negatività di alcuni…è una cosa che ho sempre timore che prenda anche me, perché non voglio diventare la classica veneziana lamentosa, frustrata, arrabbiata con l’altro. Mi ritengo fortunata a vivere qui e penso che chi ha questa fortuna debba avere la volontà di mantenerla viva, vitale e di non farla morire, e spesso mi sembra ci sia poca consapevolezza, poca propositività e molto lamento. Capisco che per chi fa un lavoro come il mio, a contatto col turista, non sia facile e possa essere frustrante. Però credo che ci si possa impegnare per essere un po’ più accoglienti. Capita anche a me di arrabbiarmi ma poi mi dico: stai calma, cerca di condividere. Spiega. Magari raccontando perché, a volte, sembriamo così arrabbiati. Fai in modo di migliorare la cosa, non ignorarla.
Poi, chiaro, ci sono degli aspetti della venezianità “umana” che sono bellissimi, come la condivisione. Penso al Redentore o alla sagra, ai tavoli condivisi con i vicini, al vivere insieme lo spazio vitale – che sia la corte, che sia il quartiere. Penso che se fosse una città meno incasinata sarebbe ancora fattibile, e le persone sarebbero ancora più ben disposte, perché c’è la voglia di farlo da parte di tutti. Anche perché è una città dove è difficilissimo ignorarsi. Si vive tanto vicini, qui, c’è una densità intensa, si sentono i rumori dei vicini, ci si sfiora per strada, ci si incrocia, ci si guarda negli occhi quando si cammina, e sentirsi ignorati è davvero triste, va contro la logica di questo luogo.
Quindi quando vedo la mia dirimpettaia che si affaccia alla finestra nello stesso momento in cui lo faccio io e mi sorride, capisco che c’è questa inclinazione a riconoscere l’altro, è naturale. Lo abbiamo scoperto anche quando abbiamo aperto la bottega. Aprirla in una zona come Cannaregio, in un luogo in cui c’è ancora un panificio, c’è ancora una cartoleria, c’è comunità, mi ha fatto accorgere fin dai primi giorni che c’era questa curiosità. Avevamo il vicinato che veniva a dirci che bello, che bravi, siamo contenti che ci siete voi qui. E’ stato un bel momento.
V: Facciamo un piccolo passo indietro. Raccontami com’è nato il progetto di Studio Saor e poi la bottega.
C: Un po’ a caso, da passioni personali mie e di Ferruccio (co-founder di Studio Saor, ndr) nel periodo in cui stavamo scrivendo la tesi. La nostra formazione è sia in architettura che, in parte, in urbanistica. E da parte di entrambi c’era lo stimolo a lavorare su qualcosa di nostro.
Ci piaceva osservare quello che ci circondava, e un giorno ci siamo detti: perché non cominciamo a rappresentare quello che vediamo a Venezia, a modo nostro? L’idea iniziale è stata quella di creare un nostro isolario delle isole della laguna, tutte rappresentate nella stessa scala, per poterle comparare e per mostrare cosa sono adesso rispetto alla funzione originaria.
Lì abbiamo capito che ci piaceva fare le cose in serie, metterle in ordine. Abbiamo sviluppato tutto il progetto con questo metodo di catalogazione, usando la stessa scala, lo stesso modo di rappresentazione, anche per i palazzi, le chiese e i ponti. E questo esercizio ci ha fatto conoscere la città. Ci è sempre piaciuta l’idea del capire come è nata, come si è evoluta, partendo dai punti notevoli – la chiesa, il campo, il pozzo, la parte residenziale intorno, e poi la parrocchia, il quartiere, l’isola – e infine i ponti, che uniscono tutti questi microcosmi.
Da lì, abbiamo pensato: perché non ne facciamo qualcosa di più divulgativo? Siamo circondati da rappresentazioni della città – i souvenir – che sono banali, generalisti. Noi la stavamo analizzando, la stavamo scoprendo. Perché non condividere questa cosa con gli altri, magari contribuendo a far capire che è molto più ricca, più varia e più complessa di quello che sembra? Il souvenir è un modo facile per fare tutto questo, ma le conversazioni che si innescano – anche banalmente rispetto al modellino del Mose, di cui la gente ci chiede e che ci permette di parlare delle acque alte, del cambiamento climatico – sono interessantissime.
V: Raccontaci come siete passati da progetto astratto a bottega. Non dev’essere stato semplice.
C: Lo abbiamo lanciato al pubblico nel 2016 con un market, che è stato anche il primo momento in cui anche noi ci siamo confrontati con altre persone – artigiani, designer, artisti – e abbiamo cominciato a capire cosa si muoveva in città. Da lì, ci siamo messi online. Era ancora un progetto parallelo alle nostre occupazioni principali ma volevamo farlo crescere. Poi abbiamo cominciato con i rivenditori: librerie o concept store che ci hanno offerto la loro vetrina per esporre il nostro lavoro. Poi i bookshop dei musei, che è stato un ottimo modo per testare un prodotto e capire se poteva funzionare. E infine la bottega. Ed effettivamente, per quello che vediamo, funziona. Abbiamo la fortuna di essere in una zona di alto passaggio, di avere una vetrina un po’ diversa e che salta all’occhio. E questo è quello che dico quando qualcuno mi chiede quali sono le difficoltà nell’aprire la propria attività a Venezia: si può fare, non è neanche così difficile farlo, perché siamo in un posto così pieno di cose tutte uguali, che appena proponi una cosa leggermente diversa e ben fatta si nota e funziona, la gente è incuriosita, entra e chiede e vuole supportarti.
V: Come avete trovato lo spazio?
C: Col passaparola, dopo averne viste di tutti i colori – spesso capita che i proprietari non siano molto interessati al progetto, chi paga l’affitto più alto si accaparra lo spazio. Fortunatamente, la persona che abbiamo trovato ci è venuta incontro – si parlava del 2021, quindi post-pandemia – e ci ha dimostrato che gli faceva piacere darlo a noi perché gli sembrava di contribuire a qualcosa di bello per la città.
V: Questa cosa del passaparola rivela proprio la dimensione da villaggio di Venezia, tra l’altro.
C: Ma infatti, anche questa è una cosa che mi piace. C’è un sottofondo di persone che ha voglia di aiutarsi l’un con l’altra, e la stessa cosa accade con le case per i residenti – altro tema caldo. Ci si fa forza a vicenda e si gioisce dei rapporti coltivati.
V: Raccontami le tue cose preferite da fare in una giornata libera.
C: Torno sull’idea di vita lenta, del camminare. Svegliarsi tardi, fare colazione in una di quelle pasticcerie vecchia scuola come Rizzardini, comprare i fiori al chiosco dell’Accademia, e andare al mercato, incrociare qualcuno e fermarsi a mangiare un cicchetto ai Do Mori, all’Arco. Tornare a casa, cucinare, e poi magari fare la passeggiata alle Zattere al pomeriggio, o una passeggiata più lunga per arrivare in fondo a San Pietro di Castello con tappe in via Garibaldi – un luogo in cui la venezianità è ancora preponderante – tornando con la luce del tramonto. E il Lido d’estate. Sono tanti anni che non faccio vacanze e quindi il Lido è diventato anche il mio luogo di sfogo di quel giorno alla settimana in cui voglio prendermi un libro, un ombrellone e stare in pace.
V: Anche perchè poi per il resto c’è una socialità preponderante.
C: Si incrocia sempre qualcuno. E’ una socialità fatta all’aperto, quindi dovunque andrai, troverai qualcuno con cui fermarti, fare due chiacchiere, bere un bicchiere. Stiamo fuori perché ci fa stare bene, ma anche perché le case, gli spazi, soprattutto per la nostra generazione, sono limitati.
Che è una cosa che mi viene spesso chiesta, vedendo le case: come fai a vivere in degli spazi così ridotti? Certo, devi imparare a gestirti bene, impari a tenere tutto al suo posto, ma non ho mai trovato difficoltà a ritrovarmi nel piccolo, perché l’ho sempre trovato accogliente. A me non interessa la comodità se questa implica stare in un posto diverso da questo, preferisco stare scomoda (che poi, fare le scale e portare le borse a piedi è una scomodità relativa), ma stare qui, vivere questa vita qui.
Io, al contrario, mi chiedo come dev’essere venire a Venezia, se arrivi, che so, dagli Stati Uniti, che sensazione provi? Immagino lo shock di chi arriva qui per la prima volta. Effettivamente se chi ci viene ed è abituato alla casa grande, alla macchina grande, agli ipermercati, immagino che si senta in difficoltà e fatichi a comprendere come ci riusciamo a vivere.
V: Trovo le tue riflessioni affascinanti e rispecchiano molto come mi sento anch’io rispetto alla città. Quindi mi viene da chiedermi se allora non ci sia qualcosa che ci predispone a questo essere INCURABILI, ovvero a diventare queste persone che si innamorano di questa città e poi trovano tutto il resto un po’ alienante.
C: Non lo so, è una cosa un po’ magica, non la so spiegare. Siamo certamente circondate dal bello, che è un bello particolare, un po’ sporco, un po’ decadente, ma comunque bello. C’è l’acqua, c’è la luce, i colori particolari che trovi solo qui. C’è il fatto che è intima e internazionale. E’ un insieme di tante piccole cose che creano uno stile di vita, per noi, perfetto. Certo, devi vederle, queste piccole cose. Devono essere importanti per te. Non è per tutti.
V: Dimmi del tuo prossimo progetto.
C: Ci piacerebbe aprirci, applicare il nostro metodo per osservare altre città. E poi, vorremmo usare delle basi del nostro lavoro per accogliere altri illustratori, designer e artisti veneziani per vedere con i loro occhi il nostro metodo. Il bisogno che sento è quello di coinvolgere altre persone. Io prima di aprire il negozio mi sentivo un po’ annoiata a star qui, ero più chiusa. Adesso sono super stimolata, vedo un sacco di persone, anche grazie a tutte le inziative che stanno nascendo, come How Do We Meet e questo progetto.
V: Che sono tutti movimenti dal basso, che partono da persone che condividono una visione comune, che ci tengono.
C: Sì, e questa era proprio una cosa di cui c’era bisogno. Sono molto felice di questo perché, dal post-pandemia, si stanno creando comunità di gente nuova molto interessante e attiva e mi rende fiduciosa e mi fa venire voglia di fare, di contribuire a dare una direzione diversa alla città, di cambiare quello che non mi piace. Avendo conosciuto sia chi ci è nato che chi ci è arrivato, ho la sensazione che saranno soprattutto i secondi a innescare il cambiamento, perché ci teniamo, abbiamo capito cosa manca, cosa deve accadere.
V: Quindi l’auspicio per la città è: meno lamenti, più azioni collettive concrete.
C: Esatto. Muoviamoci, facciamo cose, facciamolo anche insieme a chi viene da fuori per portare nuovi stimoli e continuare ad aprirci al mondo in modo intelligente. La collettività è la lente attraverso la quale vedere il futuro di Venezia, altrimenti se ci chiudiamo nella nostra individualità, ognuno guardando al proprio orticello, non andremo lontano. Evviva le cose fatte insieme.