Nay Santangelo è graphic designer e, dal 2021, co-founder di Sangueblu, un negozio di capi e accessori vintage in Calle dei Fuseri, nel centro di Venezia. Originaria di Caserta, Nay ha è arrivata a Venezia da sola per quello che inizialmente doveva essere uno stage di qualche mese, e alla fine è rimasta, sentendosi sempre più parte di una comunità che, tra veneziani nativi e nuovi, conserva uno sguardo ottimista sul futuro della città. In questa intervista, Nay ci racconta di come la sua passione per il vintage sia diventata la sua professione, di rapporti di vicinato, e di come ogni capo porti con sé un piccolo pezzo di vita veneziana.
INTERVISTATA DA VALERIA NECCHIO
FOTO DI NAY SANTANGELO / RITRATTI DI VALERIA NECCHIO
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V: Sei stata tu a scegliere Venezia, o è stata Venezia a scegliere te?
N: Bella domanda. Era il 2014. Ero in viaggio a Milano e, dopo una settimana un po’ caotica, sono arrivata a Venezia e mi sono resa subito conto di come fosse, in contrasto, una vita più lenta. Era maggio, quindi il periodo più bello – periodo di Biennale, di lunghe giornate di luce. Ero da sola e non avevo lo smartphone, per cui giravo così, per le calli, perdendomi. Ho trascorso una settimana qui e mi sono innamorata della città. Poi sono tornata, mi sono laureata e ho iniziato a mandare curriculum in giro. Alla fine, anche se a Milano mi avevano offerto un lavoro, mentre a Venezia avevo ricevuto solo un’offerta di stage, ho scelto di venire qui. Non so bene perché. Forse perché in quel periodo ero fissatissima con la città (la mia tesi era sul Casanova di Fellini, che è ambientato a Venezia (anche se in realtà è stato girato tutto a Cinecittà!)), o forse per quella prima esperienza bellissima e solitaria…non so.
Fatto sta che mi sono trasferita e ho iniziato a lavorare in uno studio di grafica. Non conoscevo nessuno, all’epoca, ma i colleghi sono diventati subito come una seconda famiglia per me. Da quel momento, non mi sono mai sentita meno sola. Dovevo rimanere solo qualche mese e invece sono sette anni che sono qui. E posso dirti che ad oggi non mi vedo in nessun altro posto: ormai sono talmente regolata su questo ambiente che non riuscirei ad immaginarmi altrove, è diventato il mio habitat. E se ogni tanto ho qualche ripensamento, mi basta fermarmi trenta secondi e subito mi rendo conto di quello che ho. Quante persone sognano di venire a Venezia e forse non ci arriveranno mai? E io invece ci vivo.
V: Torna spesso il tema di una città che premia chi si butta – uno si lancia e lei ti prende. Naturalmente è una suggestione, ma è sicuramente un fil rouge di queste “storie incurabili”.
N: La città ti prende e così fanno le persone che ci credono e ci investono – ti coinvolgono e ti abbracciano. Penso a Daniele (Carrer, ndr), il mio socio, che è veneziano, ha fatto mille cose nella vita, e vuole ancora farne tante. Lui, come tanti altri, ha capito il valore di integrare la comunità locale con energie nuove, con persone nuove come posso essere io. E le persone nuove stanno arrivando, finalmente. Ci sono un sacco di ragazzi che stanno tornando, investendo a Venezia e portando idee valide.
V: Hai anche tu questa sensazione?
N: Sì. Devo dire che i primi anni, un sacco di persone conosciute qui poi sono andate via – chi a Milano, chi a Parigi – perché magari non riuscivano a trovare sbocchi lavorativi. Rimanevano giusto i veneziani tenaci, quelli che qui rimarranno fino alla fine. Con lo smart working sono cambiate un po’ di cose, si sta ricompattando il tessuto sociale, e sta iniziando a spandersi a macchia d’olio questa voglia di esserci e di fare.
V: Trovo particolarmente interessante chi, tra tutti i posti in cui potrebbe andare, sceglie di venire a Venezia.
N: C’è una qualità della vita, qui, che è innegabile.
V: Però mi vien da dire che è per chi riesce ad apprezzarla. Sembra scontato ma non lo è.
N: Esatto. E chi lo fa, finisce per sbattersi tanto perché rimanga bella. Ci stiamo provando ed è una cosa che prima o poi ripagherà, ne sono certa. Questa è una città che non può essere inghiottita dal turismo. Si dovrà calibrare, ad un certo punto.
V: Un altro aspetto che ricorre, in queste conversazioni, è questo sguardo positivo, questo rifiuto del lamento, questo sentirsi agenti attivi e coinvolti in un cambiamento che è già in atto.
N: Infatti, la narrativa della rassegnazione non è che sia molto utile. Sì, Venezia è incasinata, turistica. Chiaro, non è facile andare contro a logiche più grandi di te. Ad esempio, noi ci abbiamo messo un anno prima di riuscire ad aprire Sangueblu, il nostro negozio. Abbiamo avuto a che fare con tante persone che purtroppo prefesicono affittare velocemente a prescindere dall’attività piuttosto che puntare su iniziative di valore. Quindi per noi, che eravamo indipendenti e volevamo aprire un negozio vintage in piena pandemia, non è stato facilissimo; non è stato facile nemmeno spiegare cosa volevamo fare. Per fortuna alla fine abbiamo trovato questi affittuari veneziani che ci hanno aiutato a partire. Quindi, ecco, la tenacia ripaga. Serve non fermarsi alla prima porta in faccia, combattere un po’, meglio se insieme. Forse è questa la lezione più importante.
V: Da dov’è nata l’idea per un negozio vintage?
N: Fin da ragazzina ho sempre avuto la passione per i vestiti, andavo a rovistare nei banchi del mercato del mio piccolo paese. Col passare degli anni ho affinato il mio gusto e ho continuato a collezionare abiti vintage; quelli che non indossavo li vendevo. Così, durante la pandemia, in un momento di difficoltà per lo studio di grafica in cui io e Daniele lavoravamo, Daniele mi propone di reinventarci e di aprire insieme un negozio vintage; io dovevo mettere soltanto l’idea. Lì per lì ho pensato che stesse scherzando, non l’avevo mai fatto, mi sembrava un’idea assurda. Poi, vedendolo convinto, mi dicevo che era una bolla che si sarebbe sgonfiata. E invece, a dicembre 2020, ricevo una sua chiamata in cui mi annuncia che aveva trovato lo spazio perfetto, in Calle dei Fuseri, una zona della memoria, per lui. Era un segno. Non ero convintissima, ma dopo qualche tentennamento abbiamo firmato, e nel 2021, con un piccolo budget, abbiamo aperto Sangueblu.
Nei mesi successivi ci ha raggiunti Davide, e tutti insieme l’abbiamo plasmato a nostra immagine – dal portaoggetti all’ultimo vestito. Personalmente, sono felice di dire che ho messo dentro tutto quello che conosco del vintage da quando avevo 12-13 anni, mi rispecchia completamente.
V: E come sta andando, dopo due anni?
N: A essere onesta, non mi aspettavo che potesse darci tutte queste soddisfazioni. Ma nel giro di un anno siamo stati profilati su Vogue, poi è venuto Jeremy Scott a trovarci in negozio! Oggi, posso dire che è proprio bella la comunità che si sta creando intorno a noi. Pur essendo a Venezia, riusciamo a lavorare con New York, Londra, Parigi, ma anche con le persone del luogo o che passano di qui, ed è stupendo perché in questo crocevia magari ti trovi contemporaneamente in negozio la signora di passaggio che non ha mai comprato vintage insieme all’influencer di moda che sa tutto.
La cosa più bella però sono le storie che ci arrivano con i capi. Noi compriamo da archivi privati, armadi e aste. E quindi a volte arrivano queste signore veneziane che ci raccontano delle loro sfavillanti vite e del loro passato mondano, ed è stupefacente ma è un po’ come entrare nella loro intimità, diventi un po’ conferssionale, in quel momento . E queste storie poi vengono raccontate al cliente, è parte integrante dell’acquisto di quel capo, devono sorbirsele per forza! Potremmo scrivere un libro con tutte le storie che abbiamo raccolto in questi anni.
V: Lì, in Calle dei Fuseri, avete proprio un punto di vista privilegiato sulla complessità della dialettica cittadina – un via vai pazzesco.
N: Quando abbiamo aperto, Calle dei Fuseri era deserta – un segno inequivocabile della fragilità di certe dinamiche di sfruttamento del centro. C’erano giusto delle attività storiche, tipo la pasticceria di fronte, il negozio di scarpe, la profumeria e il negozio di belle arti – insomma, la memoria storica di quella zona. Con loro si è creato subito un senso di comunità, sono venuti tutti a conoscerci e con molti di loro si è creato un rapporto di vicinanza, come un piccolo villaggio. Poi, con le varie riaperture, la calle è tornata ad essere molto turistica. Le botteghe storiche sopravvivono perché sono lì da anni, però per le persone giovani come me la difficoltà è quella di concorrere con l’ennesimo negozio di souvenir, l’ennesimo ristorante, e sentirsi un po’ circondati solo da questo – da cose che non hanno motivo di esitere. L’altra faccia della medaglia è che appena apre un negozio nuovo funziona subito, perché è facile differenziarsi.
V: Mi immagino poi che anche nei vostri confronti ci sia stata curiosità.
N: Un po’ per il fatto che il nostro non è un negozio vintage canonico, un po’ perché sia io che Davide, il mio compagno, siamo del sud (io di Caserta e lui di Napoli), la gente non capiva cosa ci facessimo lì. Ma ci hanno preso subito sotto la loro ala. Ci coccolano, ci portano le pizzette quando siamo giù – è tutto molto umano.
V: Come sono i ritmi della vita in negozio?
N: A differenza di luoghi dove la vita scorre veloce, qui è tutto rallentato, ed è una cosa bella. Alle 18:30 si chiude e tutti si trovano a bere l’aperitivo insieme, tempo di andare da Marchini, il bar all’angolo, e trovi tutti gli habitué che vanno lì a timbrare il cartellino. E io impazzisco perché quando vedo sempre gli stessi personaggi dopo un po’ devo sapere tutto di loro. E loro mi dicono che vanno lì da 30 anni, tutti i giorni, pure la domenica per prendere i dolci, ci raccontiamo dei fatti nostri, c’è quel momento del pettegolezzo di quartere, di leggerezza. E lì ti rendi conto che sì, Venezia sarà una città da milioni di turisti l’anno, però questa dimensione non la perdi, ed è bellissima.
V: Raccontami dei tuoi altri rituali.
N: La mattina è il mio momento sacro. Prendo il caffè al bar, arrivo in negozio e mi metto al computer e studio – guardo cataloghi, sfilate, interviste, è il mio momento nerd. E poi il mio momento preferito è quando torno a casa a piedi la sera. Attraverso la zona dei Frari, San Rocco, che adoro. E mi piace perché già a quell’ora la città diventa quieta, ed è una cosa surreale – è surreale che alle 22.30 tutto si spenga. Venendo dal sud, alle 23 da noi inizia la festa, invece qui tutto finisce. All’inizio sei un po’ spaesata, poi ti abitui – alle 23 ormai siamo già a letto a leggere o a vedere un film. E’ tutto molto tranquillo, ma in senso buono.
V: L’amore per il girovagare a piedi la sera è sintomo inequivocabile di incurabilità.
N: Verissimo. E mi piace tanto l’idea di sentirmi parte di questo gruppo di persone che si riconoscono in questa città, che ci investono. Mi motiva. Se ci si ferma a guardare a quelli che non fanno non ne esci più, bisogna guardare a quelli che fanno. Sono molto ottimista: non ho alcuna intenzione di immaginarmi una città che diventa una scenografia vuota.
V: Che non diventi il nuovo set di un nuovo Casanova…
N: No, infatti! Che vadano a Cinecittà, qui ci serve una città vera.