Nicoletta Saggio è una persona poliedrica e sorprendente. Grande appassionata d’arte, ha lavorato per moltissimi anni in campo teatrale, artistico e negli eventi. Originaria di Conegliano, nel cuore delle colline del Prosecco, si è trasferita a Venezia quasi vent’anni fa per un master e, nel rimanere, ha poco a poco conosciuto la città in tutte le sue sfacettature e le sue dimensioni, da quella più sfarzosa a quella più profondamente umana. Ora vive con la sua famiglia a Murano, gira in barchino e si occupa di guidare gli ospiti di Hotel Flora e Casa Flora alla scoperta dei lati meno scontati e più stupefacenti di Venezia, trasmettendo il suo amore viscerale per la bellezza, per l’arte e per i vecchi libri.
INTERVISTATA DA VALERIA NECCHIO
FOTO DI NICOLETTA SAGGIO / RITRATTI DI VALERIA NECCHIO
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V: Credo tu sia la più “veterana” tra tutti gli incurabili intervistati fino ad ora.
N: Eh sì. Mi hai fatto fare i conti. Ero convinta di essere qui da 17 anni. Poi ho controllato e ho visto che sto per raggiungere il ventennale l’anno prossimo.
V: Raccontami del prima.
N: Io sono nata e ho vissuto fino ai 18 anni sui colli di Conegliano, in un casale in mezzo ai vigneti. La mia è una famiglia contadina da generazioni. Produciamo uva (Glera), abbiamo molti vigneti e campi di granturco, un tempo avevamo anche le vacche. I miei genitori, è come se fossero i miei nonni, nel senso che, a parte l’anzianità, anche come mentalità, sono molto all’antica. Mi sentivo molto diversa dai miei coetanei: ero l’unica che viveva fuori comune; da noi, in mezzo alla campagna, non arrivava neanche il pulmino, dovevo andare a scuola in macchina. E poi, al pomeriggio, finivo presto i compiti per andare a dare il fieno, mungere, vendemmiare, seguire orto, pascolare I tacchini…era una meraviglia.
V: Un’infanzia agreste, insomma, però felice.
N: Felice sì, ma per dire, fino a che non sono andata all’università non avevo mai fatto vacanze, non avevo mai dormito fuori casa nemmeno una notte. Non siamo mai andati al mare. Quindi la mia prima volta in cui ho dormito fuori casa, fuori dal mio letto, è stata la prima notte a Udine, da fuori sede.
V: C’era il bisogno di andarsene, insomma.
N: Sì, a quel punto andava bene qualsiasi cosa. Ho scelto economia aziendale perché mi sembrava una scelta consapevole, ma poi mi sono laureata in fretta e furia perché non ne potevo più del mio percorso di studi – mi mancava tutta la parte umanistica, che era la mia preferita. Dopo la laurea, ho fatto un anno e mezzo a Gran Canaria, un Erasmus che poi è proseguito in un’esperienza di lavoro. E, di ritorno, ho deciso che volevo continuare a studiare, ma per non buttare all’aria tutto quello che avevo fatto e anche per non scontentare la famiglia, ho cercato qualcosa che combinasse economia e arte e ho scelto un master in economia e gestione delle arti e delle attività culturali, che ora è di gran moda ma all’epoca era agli albori. Mi sono trasferita subito a Venezia. Ho fatto un trasloco senza passare per il via, tra cose di Udine e cose dalle Canarie, bypassando completamente Conegliano.
V: E come è stato arrivare a Venezia?
N: In realtà sapevo bene cosa significasse vivere su un’isola. Prima c’è stata l’isola vigneto, da cui non uscivo mai. E poi ci sono state le Canarie, dove mi sono innamorata dell’acqua. Quindi, non so come, ma arrivata a Venezia mi sono sentita come se avessi sempre abitato qui.
Dopo gli studi, ho fatto un tirocinio al Teatro Fondamenta Nuove, un posto magico che purtroppo ha chiuso nel 2016, ma che ora è in attesa di essere riaperto. Era un teatro di rappresentazione e c’era un grandissimo fermento culturale. Ecco, quello è stato un luogo che, a proposito di Incurabili, ha fatto innamorare tante persone che poi si sono fermate – persone anche dall’estero che hanno portato tanto alla città e che poi hanno trovato percorsi diversi, coltivando competenze diverse tra arte, musica e spettacolo. E così anch’io. Eravamo tutte persone che, non essendo di qua, ma avendo scelto di rimanerci, dovevaMo piantare radici ancora più profonde, perché quel legame lo vuoi, lo cerchi. Non vuoi sentirti uno straniero in mezzo agli stranieri, vuoi essere riconosciuto. E siccome non è facile, ti dai da fare.
Poi ho iniziato a lavorare per un’agenzia che organizzava grandi eventi, praticamente vivevo sopra la sala stucchi all’Excelsior – il Lido era il nostro avamposto. E questo lavoro mi ha aperto le porte di alcuni dei palazzi e delle location più meravigliose della città. Insomma, da dietro le quinte ho visto posti che mi hanno fatto innamorare e che non avrei mai visto altrimenti.
Da lì sono passata a lavorare per una fondazione ai Giardini della Biennale, al Concilio Europeo dell’Arte, dove ho seguito l’organizzazione di mostre ed eventi collaterali e altri progetti. Anche questo è stato molto interessante per me, nel senso che sono passata dalle location lussuose agli spazi per mostre e allestimenti – non so quanti magazzini e scantinati ho visto, e quanti numeri di telefono ho registrato per andare a vedere posti che potessero ospitare piccole esposizioni Indipendenti.
Purtroppo la pandemia non ci ha aiutato, i progetti e gli eventi sono tutti slittati, e da parte mia avevo bisogno di cambiare aria e trovare qualcosa che mi desse un ritorno immediato di positività. Mi serviva vedere la faccia felice di qualcuno che mi ringraziava per avergli consigliato di andare a vedere, che so, Giovanni Bellini dentro alla Chiesa di San Francesco della Vigna. Un giorno forse tornerò a lavorare nell’arte, ma per ora sono molto felice di quello che faccio. Mi piace, sento di fare il mio anche solo raccontando Venezia con i miei occhi. Mi piace far passare l’idea che c’è una residenzialità, e che anche noi residenti siamo stupiti della bellezza di questa città. C’è spazio per sentirsi comunità, quindi mi piace questa fase di passaggio da un lavoro all’altro, è una dimensione che mi arricchisce.
V: E poi galeotto è stato l’incontro con Alberto [Spezzamonte, ndr].
N: Eh sì. L’ho conosciuto al Teatro Fondamente Nove, lui faceva il sound engineer lì ma anche per i concerti di San Marco, era il fonico degli Ska-J.
Ecco, è stato bello fin da subito perché ho vissuto Venezia su tanti registri diversi: quella che tutto il mondo conosce, ovvero quella dei grandi eventi, delle feste in terrazza, la Venezia inarrivabile, costosa e che si possono permettere in pochi; poi, la Venezia dell’arte; la Venezia delle case occupate. E, infine, quella dei residenti: una Venezia vista dall’acqua, dal barchino – anzi, dalla topa, che era la topa del teatro che guidava sempre Alberto – e che ti dà una prospettiva completamente diversa sulla città. Vedi i panni stesi, vedi i risvegli della gente…è una vita privata che viene esposta sul retro, a vista sui canaletti. Ed è la vita che ora vivono i miei figli.
V: Questa è un filone che ancora non abbiamo esplorato, nelle interviste precedenti – ovvero quello dell’infanzia e del crescere a Venezia.
N: Venezia secondo me è una dimensione meravigliosa per far crescere dei bambini, almeno finché non sono adolescenti. C’è da dire che viviamo a Murano, perché Alberto è di lì e ad un certo punto si è resa disponibile una casa con giardino; non l’ho neanche vista, gli ho detto: “OK, andiamo”. Lo trovo un luogo molto sicuro, dove non mi devo preoccupare. Ci si sposta sempre in barca. I miei figli vanno a scuola in barca in qualunque stagione e con qualunque tempo – arrivano zuppi, a volte, ma il padre è intransigente e la verità è che non prendono mai un raffreddore. A volte ci capita di andare in terraferma per qualche giorno, o in vacanza, e vedo che al più grande l’acqua manca in maniera viscerale, manca quel senso di libertà che solo la barca ti può dare. Ed è bello che si rendano conto di questo privilegio. Perché in realtà è un privilegio, in un certo senso – siamo in pochi ad avere il barchino; gli altri ti guardano e ti fanno la foto, ma il barchino ti lega a questo senso di appartenenza alla città.
V: Cosa ti piace di Venezia per come la vedi oggi?
N: Si potrebbero dire tante cose, ma la cosa più evidente è che adesso vedo una comunità di persone che hanno portato tante competenze e che stanno svecchiando l’idea di fare rete e fare impresa in città. E’ bello perché ti fa pensare che non sei solo tu a pensarla in un certo modo, che ci si sta sensibilizzando e ci si sta sostenendo e questo ci fa sentire meno soli.
Mi piace la condivisione e l’idea di accoglienza che inizio a vedere, mi piace questa convinzione di poter far bene. Non è sempre facile, ciclicamente può essere demoralizzante, vuoi per le risposte da parte della città, vuoi perché certi mesi dell’anno portano con sé un certo tipo di turismo meno attento ai servizi offerti. Ma ci sono momenti in cui Venezia ti ripaga molto, e lo stesso fa il feedback delle persone con cui interagisco e a cui riesco a dare qualche consiglio speciale su cose da fare, circuiti alternativi. A volte, sottobanco, ad alcuni presto anche le mie guide o i miei libri – per ora sono sempre tornati indietro.
Ho tantissimi libri di Venezia, li colleziono, e ogni anno a Natale qualcuno è incaricato di regalarmene uno. E poi c’è una parte della mia famiglia acquisita che alimenta questa mia passione – Luisa, la bisnonna di Alberto, che è morta a 90 anni, era la più grande lettrice che io abbia mai conosciuto, leggeva un libro al giorno. Ancora mi capita di andare a pescare dalla sua libreria, aveva tutta una sezione su Venezia, aveva i libri di Fulvio Roiter, aveva i numeri della rivista i Meridiani – una rivista già all’epoca molto costosa, molto bella, per un turismo di nicchia – e quando ha scoperto che anch’io ero appassionato mi ha regalato il numero uno della rivista, che era il numero dedicato a Venezia, un’edizione speciale. La conservo gelosamente, tutta impacchettata.
V: Raccontami una tua giornata tipo.
N: Premesso che siamo una famiglia ben assortita e piuttosto dinamica, ci svegliamo tutti tremendamente presto – io alle 5.00, e poi per le 6.00 massimo sono tutti in piedi. Sono felicissima di alzarmi presto, è un dono prezioso. Riesci a sentire Venezia davvero tua.
Poi io vado al lavoro e loro vanno a scuola in barca con Alberto. Le prime ore della mia giornata sono occupate al lavoro dove mi dedico ad organizzare la giornata degli ospiti, indirizzandolii alla scoperta di Venezia – questo, dopo aver organizzato anche quella dei miei figli, che hanno una vita sociale molto più interessante della mia. Poi, il resto della giornata è occupato dal vivere la città e la comunità che si riversa in pubblico nel tardo pomeriggio. Con i bambini cerchiamo sempre di vivere la giornata fino all’ultimo, che sia in barca in laguna o in campo. Nella bella stagione, non torniamo mai a Murano prima delle 8 di sera. Spesso siamo in Campo dei Gesuiti a giocare a calcio, o seduti su un pozzo da qualche parte. Spesso provo ad abbinare il gioco e l’entrata da qualche parte – una chiesa, una cosa che non ho visto. E obbligo i figli a venire con me – mi odiano. E poi c’è il momento dell’aperitivo, mentre la cena la facciamo spesso a casa. Alberto ha questa cosa dell’amore per il cucinare, ama cucinare per gli altri – se gli altri lo chiamano per fare qualcosa insieme lui dice sempre sì e li invita a cena, quindi spesso ci troviamo in 20 con lui in giardino a grigliare.
D’estate, nei giorni liberi, amiamo andare in laguna nord in barca. Ci svegliamo prestissimo per andare a vedere l’alba, poi facciamo colazione a Burano e rimaniamo lì. Ho questo ricordo bellissimo di un temporale estivo dove i bambini erano eccitatissimi, era un’avventura vera.
E poi, quando gioca il Venezia siamo sempre in curva. Nino, mio figlio, ha 10 anni e gioca a calcio e ha la passione per Joel Pojhanpalo. Così, in famiglia è scoppiata la passione per il Venezia FC nonostante io non abbia mai visto una partita prima d’ora e nemmeno Alberto, adesso andiamo sempre, tutti e 4, compresa la bimba che ha 5 anni. E prima della partita, ma anche dopo, facciamo tappa fissa al Partito in via Garibaldi, uno dei luoghi a me più cari. Ci fermiamo lì, giochiamo a torello, a calcio, tutti insieme, e poi si torna a casa seguendo le mura dell’arsenale, che verso il tramonto hanno una luce spettacolare, con quei merletti. Amo la venezianità di queste sere e di questi luoghi.
V: Altri tuoi luoghi del cuore a Venezia.
N: Amo la zona di Castello – San Piero, San Francesco della vigna, la facciata dell’Ospedale, ovvero la Scuola Grande di San Marco – ma anche di Cannaregio. La Chiesetta dei Miracoli, la Madonna dell’Orto, col suo sagrato in cotto. Il Campo e la Chiesa dell’Abbazia. A proposito di Campo dell’Abbazia: mi ricordo ancora di una serata meravigliosa di tanti anni fa in cui l’abbiamo occupato col gruppo del Teatro Fondamenta Nuove. Per mesi abbiamo organizzato un aperitivo itinerante nei vari campi della città – funzionava tutto per passaparola, via messaggio. Occupavamo i campi, portavamo tavoli, Alberto faceva i cicchetti, e offrivamo l’aperitivo a chi veniva, era tutto gratuito. Al primo evento eravamo in 15, e alla fine ci siamo ritrovati in 50 a fare comunità nei campi più belli di Venezia. Stavamo lì finché qualcuno non chiamava la polizia, noi buttavamo tutto in barca e andavamo via. Offrivamo anche ai turisti di passaggio, che ci guardavamo con due occhi così. Noi lo facevamo per puro piacere di stare insieme.
V: E’ la stessa voglia di comunità che si vede durante le sagre estive.
N: Certo, di questo credo ci sia bisogno. Vedo che alle sagre estive c’è sempre grande partecipazione, tutti non vedono l’ora di andare a San Piero de Casteo o a San Giacomo, e a San Francesco della Vigna…dovrebbero riesumare qualche altro Santo o qualche altro patrono, magari in altri mesi dell’anno, per poter continuare.
V: Una storia veneziana che ami raccontare.
N: Quella della costruzione della Chiesetta dei Miracoli. E’ stata costruita in pochissimo tempo, nel ‘400, e che sia stata tirata su in 6 o 7 anni con i soldi della delle donazioni della popolazione del quartiere per celebrare un avvenimento miracoloso – insomma un’impresa grandiosa perché anche se è stata fatta così velocemente, è tutta di marmo e granito. Mi fa pensare alla fatica fisica che deve essere costata per costruirla, oltre che all’ingegno. L’ingegno è faticoso, eh, ma poi la fatica fisica di vedere realizzate idee che sembravano impossibili lo è di più – bisogna ricordarselo, quando si fanno le cose: e bisogna ricordarsi di guardare oltre. Lo dico sempre ai miei figli, ma anche a me stessa.