Originario della Puglia, Gaetano Manfredonia si è trovato a Venezia grazie a una serie di eventi fortuiti quando suo padre lo ha segretamente iscritto a un concorso per un posto di medico legale nella città lagunare, un luogo per lui nuovo e al contempo familiare. Qui, è entrato in contatto con un microcosmo ricco di storie e persone affascinanti, che ben presto sono diventati la sua casa. Tra incontri sorprendenti, una vita vissuta vivacemente e una curiosità insaziabile per Venezia, Gaetano da decenni vive in un angolo di Dorsoduro, dove prende attivamente parte a molte attività cittadine. In questa intervista per “Gli incurabili”, ci racconta del suo arrivo a Venezia, degli incontri più significativi, e della sua convinzione incrollabile nell’ironia come arma contro la rassegnazione.
INTERVISTATA DA VALERIA NECCHIO / RITRATTI DI VALERIA NECCHIO
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VN: Incurabili è la parola che ho usato per descrivere tutte quelle persone che arrivano a Venezia, scoprono di avere un’assonanza particolare con la città, e sviluppano un legame forte al punto da non volerla più lasciare. Ti ci rivedi, in questa metafora?
GM: Hai centrato in pieno, io sono assolutamente un incurabile. È possibile curarsi da questo sentimento? Non credo.
VN: Che cosa ti ha portato a Venezia a suo tempo e che cosa pensi ti abbia fatto rimanere?
GM: Devo tornare un po’ indietro nel tempo. Sono cresciuto in Puglia, ma ogni anno i miei genitori organizzavano un viaggio a Padova – mia mamma era devota a Sant’Antonio – e ci scappava sempre una gita a Venezia. Immaginati gli occhi di un bambino che arriva in città su un treno che cammina sull’acqua: conservo ancora il ricordo surreale, sognante, di una città che sembrava galleggiare.
Poi, durante gli anni di medicina a Modena, venivo spesso a Venezia con gli amici nel periodo di Carnevale, ricordo che rivivevo quella sensazione di una città sospesa. Lì per lì non avevo ancora maturato la certezza che fosse la mia città, ma sentivo che mi affascinava, andavo sempre via con una certa malinconia.
VN: E poi?
GM: Finita la specializzazione, tornai in Puglia e andai a lavorare in un istituto di ricerca. Ma ero irrequieto, mi mancava qualcosa. Allora mio padre, senza dirmi niente, mi iscrisse ad un concorso di medicina legale a Venezia — quando arrivò a casa la lettera di partecipazione fece finta di non saperne niente. Feci il concorso, lo vinsi. Presi sei mesi di aspettativa dal lavoro in Puglia e andai a Venezia.
Partii da solo e trascorsi i primi mesi a Venezia dormendo in un albergo vicino alla stazione e andando a mangiare tutti i giorni in una trattoria in Strada Nuova. Questo, d’altra parte, mi consentì di entrare in contatto con un mondo veneziano che definirei familiare. Alla trattoria c’era una signora anziana con la figlia e la nipote, e tutte facevano queste cose molto goldoniane dove io ero il bel dottore e loro mi davano il tavolo migliore, mi davano un sacco di attenzioni, mi chiedevano cosa volessi mangiare il giorno dopo – i risi e bisi, il risotto di go, tutte le ricette della tradizione. La sera, ogni tanto, il figlio della signora mi portava un po’ in giro per osterie – si andava da Codroma a giocare a domino, a carte, si beveva un’ombra, si fumava.
Nel mentre, i miei genitori venivano spesso a trovarmi per aiutarmi a cercare casa. Non fu facilissimo, ma alla fine, anche grazie all’aiuto della signora della trattoria, trovai casa in un quartiere che ci metteva tutti d’accordo (non ti dico i dibatti la sera, a tavola!) Questo corrispose con la fine dei sei mesi di aspettativa. Dovevo scegliere cosa fare.
VN: Se restare o tornare.
GM: Esatto. Non ero ancora sicuro della mia scelta. Decisi di prendere un’altra aspettativa, stavolta dal lavoro a Venezia, per tornare sei mesi in Puglia. Una volta lì, capii subito che mi mancava qualcosa, avevo sempre il pensiero rivolto a Venezia. E così, convinto da una serie di “segni” che ritenni importanti, tornai.
VN: Come sono stati quei primi anni?
GM: Pochi mesi dopo il mio ritorno, mi capitò in ambulatorio un ragazzo, Marco, che faceva il gondoliere e che aveva il naso storto perché era andato addosso ad una briccola in barca. Con una manovra gli misi il naso a posto, e lui rimase così colpito – come se avessi fatto un miracolo! – che mi promise che sarebbe stato per sempre al mio servizio. “Sei famiglia per me,” mi disse. Marco aveva lo stazio al Danieli: quando finiva il servizio, andavo da lui, montavo in gondola e insieme giravamo Venezia di notte. Io, che ero affamato della storia di Venezia e la studiavo sui libri, mi trovavo spesso a sfatare i suoi miti e i suoi racconti un po’ infiocchettati, o a dargli qualche aneddoto che non conosceva. Era uno scambio molto bello. A volte, nel nostro girovagare, ci fermavamo a comprare una bottiglia di vino, e trascorrevamo le nostre serate così, sorseggiando e chiacchierando, esplorando la città dall’acqua.
Nel frattempo, avevo iniziato anche a fare anche il medico fiscale. Facevo le visite domiciliari, perché questo mi consentiva di approfondire la conoscenza della città, dei suoi sestieri. Ho imparato a conoscere calli, campielli, palazzi meravigliosi e case piccolissime. Andavo da tutti, dai più ricchi ai più umili. Sono entrato nelle case dei veneziani in punta di piedi, e lì ho visto la vita vera, domestica.
Qualche anno dopo, sul Gazzettino uscì la notizia che a Venezia sarebbe partito il primo corso di Sommelier. Mi iscrissi. Lì conobbi tutto il meglio della ristorazione storica veneziana, persone che volevano far fare il salto di qualità ai loro locali ed erano curiosi di conoscere meglio il mondo del vino: Cesare del Covo, Gigi del Mascaron, Gianni dell’Aciugheta…l’unico che non c’entrava niente ero io! Io però portavo l’approccio scientifico, cosa che innescava accesi dibattiti tra la fazione razionale e quella romantica. Spesso i dibattiti proseguivano nel locale di questo o di quest’altro, e in questo modo siamo diventati tutti amici.
Insomma, un po’ alla volta, ho acquisito una conoscenza ramificata delle città. E come io mi ramificavo nella città, la città si ramificava in me.
“In realtà quello per Venezia è stato un amore crescente. Venezia è il mio posto dell’anima, il posto dove la mia anima vive.“
VN: C’è un episodio di quegli anni che ti è rimasto particolarmente impresso? Un’epifania?
GM: Una volta, a settembre, ci fu un concerto di Juliette Greco nel chiostro di San Giorgio, andai insieme ad un’amica, Jole. Tornando – era passata mezzanotte – ci ritrovammo in una Piazza San Marco deserta. Volevamo bere qualcosa, così andammo a comprare una bottiglia di vino e ci sedemmo sui tavolini di uno dei bar della piazza a chiacchierare. Si fece molto tardi, in piazza stavano arrivando già i primi spazzini. Jole fece cenno a uno di loro di venirsi a prendere un’ombra, lui accettò, ci ringraziò e ci disse: “È la prima volta che mi godo questa Piazza, che posso guardarla in alto…guardo sempre in basso!” Con lui quella notte parlammo di tante cose, fu illuminante. Fatta l’alba, decidemmo di telefonare a Marco, il gondoliere. Ci venne a prendere e ci accompagnò a casa. Facemmo il Canal Grande al sorgere del sole, in gondola. Quella notte è stata la mia epifania.
In realtà quello per Venezia è stato un amore crescente. Venezia è il mio posto dell’anima, il posto dove la mia anima vive.
VN: Qual è stato l’incontro che più ha segnato questo tuo percorso da Incurabile?
GM: Ci sono state diverse persone che mi hanno segnato e hanno disegnato questa mia vita veneziana. Una di queste è Vera Schulte, una signora tedesca di una decina d’anni più di me. La conobbi una sera mentre cenavo da solo in un ristorante che frequentavo spesso, lei era con un gruppo di amiche, attaccammo a parlare. Lì scoprii che era la presidentessa di Asolomusica, un’importante manifestazione musicale. Grazie a lei mi avvicinai moltissimo alla musica, iniziai ad andare alla Fenice, e con lei conobbi la vedova del Maestro Malipiero, Giulietta, una donna incredibile.
Giulietta viveva vicino alla Guggenheim, nella casa del Maestro. Era sola, e noi spesso andavamo a trovarla, io portavo il vino, iniziavamo a chiacchierare e le serate volavano. Giulietta aveva sempre degli aneddoti straordinari, come quella volta che accompagnò Eleonora Duse a comprare del tessuto sotto alla Torre dell’Orologio, in Piazza, ma che alla fine non comprarono niente perché non riuscì a trovare il tessuto color “Nilo al tramonto” che cercava! Sento ancora la sua risata mentre la racconta.
Tutti questi incontri – Marco, Vera, Giulietta – mi hanno dato forma. È come se Venezia me li avesse mandati (togliendomeli troppo presto, purtroppo) per rendermi depositario di queste storie.
“L’unicità di questa città ha bisogno dell’unicità di chi la rappresenta, di persone che la vivono veramente e la comprendono. E con questo non mi riferisco solo agli intellettuali, ma a tutti coloro che, fuori da logiche clientelari, esprimono un sentimento autentico nei suoi confronti. “
VN: E così siamo arrivati nel presente.
GM: Giusto. Ora vivo vicino alla Toletta, con mia moglie, i miei figli, i gatti. Quando ho comprato casa lì, ho piantato un albero di mimosa che ora tutti ammirano e che segna l’arrivo della primavera. Da casa mia — le Colonne d’Ercole per molti di noi — alla Madonna della Salute abitano tutti gli amici che ho fatto successivamente. Con alcuni di questi abbiamo creato il gruppo Noi di San Vio, con il quale abbiamo iniziato a scrivere delle commedie, a fare delle rappresentazioni sagaci – veri e propri atti di denuncia verso l’amministrazione – e tante altre iniziative, raccolte fondi, piccoli eventi.
VN: E queste sono tutte iniziative private, fatte da persone con una sensibilità particolare. E quindi mi chiedo, che cosa ci vuole a portare tutto questo a un livello più alto, pubblico?
GM: Il coraggio. Il problema non sono le persone, il problema è la mala gestione. L’unicità di questa città ha bisogno dell’unicità di chi la rappresenta, di persone che la vivono veramente e la comprendono. E con questo non mi riferisco solo agli intellettuali, ma a tutti coloro che, fuori da logiche clientelari, esprimono un sentimento autentico nei suoi confronti.
Credo sia importante riconoscerci, alimentare questa comunità. Abbiamo giocato in difensiva finora, ognuno rifugiandosi nel suo amore per la città, magari accumulando anche un senso di rabbia, che poi è più senso di solitudine, frustrazione, impotenza. Ora la rabbia deve trasformarsi in energia potenziale e poi cinetica. Deve produrre cose positive per la città e utili a chi la ama e la vuole vivere. Dobbiamo far uscire Venezia dalla terapia intensiva. Che faccia la sua degenza e che torni fuori a vivere, a respirare. Bisogna dire basta a questo perenne stato emergenziale. Non serve urlare, non servono proclami. Serve fermezza. Dobbiamo diventare un muro di gomma. E disinnescarli col sarcasmo, col potere delle idee.
VN: La speranza è che questo dialogo, questo coro di voci, attiri voci simili, nuova residenzialità. Trasferirsi a Venezia è un passo che intimorisce per tanti motivi: sapere che non è tutto uno schifo è rincuorante.
GM: L’abitudine allo scoramento è insita nell’animo umano, e Venezia ispira molto questo atteggiamento rassegnato. In realtà, guardando da vicino, ci si accorge che molti si lamentano per il gusto di farlo, ma in realtà sono contenti così, sono felici che tutto rimanga inalterato. Vivono lasciando scorrere il tempo, si lasciano vivere.
Mi ricordo di questa bellissima intervista con Edoardo De Crescenzo, il filosofo, il quale diceva che il tempo è emozione, ed è vissuto nell’attimo in cui tu lo vivi, per cui dovremmo imparare non più a capire quanto tempo vivremo, ma come vivremo il tempo che vivremo. Se il tempo che viviamo avrà dei picchi verticali, dettati dall’emozione, accadrà che lo dilaterò rispetto al farlo scorrere senza emozione, in modo piatto, orizzontale. Ecco, molti veneziani non vivono una vita con delle cuspidi, una vita di emozioni; vivono in modo gattopardiano: tutto cambia perché nulla cambi.
VN: E invece serve dare un cambio di passo. Che, fortunatamente, si sta piano piano delineando. Si intravedono scenari nuovi, sotto vari aspetti.
GM: Sono contento di questo. Venezia ultimamente ha portato una mancanza di interlocutori. In realtà, a mio vedere, il nocciolo della questione è che questa città da molto tempo non ha un’amministrazione all’altezza, che la comprenda, che faccia gli interessi della città in quanto civis, ovvero di chi la vive, e sopratutto che abbia una progettualità rivolta al futuro. Venezia da parecchi anni è amministrata non da chi è proiettato verso un futuro comune, ma da chi utilizza il passato per creare un futuro ad appannaggio di pochi. Sapere che ci sono energie giovani, persone che decidono di venire a vivere qui e di non vivere come nel cimitero degli elefanti, è davvero bello.